ALBERONI, Francesco

Valori

Rizzoli, Milano 1993, 238 pp.

CONTENUTO

Il libro è costituito da ventitré riflessioni in ordine sparso, senza titolo, sulla morale. C'è un certo "filo" del discorso, che da un tema trapassa in un altro senza grandi salti: non c'è una struttura logica chiara ed esplicita, bensì piuttosto la continuità di un'esposizione del pensiero che si sviluppa man mano.

I temi trattati riguardano di fatto la condizione e la natura dell'uomo, la morale, con i suoi fondamenti e le sue applicazioni pratiche. Viene trattato un po' di tutto; in modo molto discorsivo e molto soft, con accenti appassionati e a volte poetici, vengono ripercorsi gli stessi temi che potrebbero trovare posto in un trattato di antropologia e in uno di morale.

Quello che sorprende, nel modo di ragionare di Alberoni, è il fatto che in lui confluiscano tutte le correnti del pensiero contemporaneo, e che vengano mescolate l'una con l'altra, annullando la loro reciproca contraddittorietà (e in parte anche la loro forza), in modo da creare una specie di omogeneizzato in cui c'è tutto e il contrario di tutto, ma già cotto e per certi aspetti pre-digerito.

Alberoni dimostra in questo libro, come anche in alcuni articoli giornalistici, capacità di sintesi e di divulgazione, una certa capacità intuitiva su alcuni aspetti della condizione umana, quello che gli inglesi chiamano insight. Gli manca invece il rigore del pensiero, la vera problematicità intellettuale con cui affrontare le questioni. Affronteremo presto questo problema.

La sintesi di quanto è proposto da Alberoni, pur con tutte le contraddizioni e gli andirivieni di questo libro, potrebbe essere forse schematizzata nei punti seguenti:

        — L'evoluzione è una legge universale. Nell'uomo ha una componente fondamentale la parte biologica che lo determina, anche se l'uomo è qualcosa in più che semplice natura animale (questo è affermato con le ambiguità di cui sopra, e che analizzeremo).

        — La morale cambia con il passare del tempo. Ciò che oggi è un bene prima non lo era e viceversa.

        — La morale non può essere fondata sulla ragione pura, ci vuole il sentimento, l'amore. Dobbiamo voler bene a tutti e alla natura.

VALUTAZIONE LITERARIA E DOTTRINALE

a) Non c'è un vero metodo intellettuale nel libro. Piuttosto, sembra che il suo procedere avvenga per continui "innamoramenti" successivi: enuncia una tesi, in modo brillante e appassionato —in questo libro anche con un certo pathos di scrittura— e si fa "prendere". Immediatamente dopo, però, è capace di sostenere con lo stesso calore una tesi diversa, qualche volta opposta, senza preoccuparsi del fatto che è logicamente incompatibile con la precedente e magari in alcuni aspetti assolutamente contraddittoria. Alberoni ha uno stile di scrittura che è come un valzer che prende il lettore nei suoi giri e lo fa passare da una parte all'altra in questo abbraccio, senza fargli accorgere che si sta cambiando continuamente posizione. Vive serenamente nelle contraddizioni, senza risolverle davvero, ma qualche volta limitandosi a enunciare le due tesi contraddittorie una dopo l'altra.

Uno fra tanti esempi è il problema del rapporto fra evoluzione e spiritualità, fra determinazione naturale e libertà dell'uomo. L'autore inizia il capitolo così:

«Siamo parte di un processo evolutivo e le sue leggi ci dominano ineluttabilmente. E' il nostro patrimonio biologico che ci ha guidato nello sviluppo storico» (p. 17).

Poi osserva che ci sono state dottrine morali che si sono staccate dall'utile e dai bisogni. Si rende conto (almeno in questo caso) che ci sono due posizioni opposte:

«Che cos'è la morale? Una concezione ci dice che essa non ha autonomia, perché è soltanto una delle manifestazioni, degli stratagemmi della selezione naturale. Noi siamo condizionati, determinati, pensiamo di progettare il futuro in termini culturali e spirituali, ma siamo solo i servitori dei nostri geni che ci rendono intelligenti e socievoli per prolungare la nostra sopravvivenza.

L'altra concezione, quella da cui è sorta la nostra civiltà, ci dice invece che la morale si oppone alle leggi naturali dell'evoluzione, le plasma, le dirige, o addirittura, come vorrebbero Schopenhauer e gli gnostici, cerca di rovesciarle.» (pp. 21-22).

Ma la soluzione non risolve niente, finge (o si illude) di risolvere:

«Ma c'è una terza soluzione. Che siano vere entrambe le posizioni, che la natura umana sia costituita da questo scontro insanabile, da questa opposizione senza fine. E che proprio questa sia, nell'uomo, la verità dell'evoluzione. La morale è, a un tempo, espressione dell'evoluzione e opposizione ad essa, continuazione e rovesciamento. (...) L'essere umano ha dovuto distaccarsi dalla natura, contrapporsi ad essa, sognare una patria spirituale per progredire. Ma questa patria spirituale è scaturita, essa stessa, dall'evoluzione» (22).

Ora, come è ovvio, il problema è se c'è nell'uomo qualcosa che è al di là della materia e dell'evoluzione e che non è totalmente determinato da essa. E di fronte a questa alternativa non c'è via di mezzo. A prescindere dal problema della genesi —che potrebbe essere leggermente più complesso— non c'è via di mezzo fra il fatto che l'uomo sia determinato da leggi naturali (in qualche modo sublimazione o epifenomeno della materia) o che in lui ci sia un qualche elemento di altro ordine. Non si può cavarsela con un'affermazione che semplicemente dice che stanno insieme due posizioni fra le quali la conciliazione non è possibile.

Altro esempio: nella "Sesta riflessione", Alberoni sostiene un'idea di scienza che è concorde con la relativizzazione molto spinta (che nelle sue forme più radicali è un vero e proprio relativismo scettico) della scienza operata dall'epistemologia contemporanea nei suoi vari filoni, mentre poi, alle pp. 80-81 applica la sua idea dello "stato nascente" alla scoperte scientifiche e dice:

«Lo stato nascente scientifico è il disvelamento dell'essere che si manifesta, che appare. (...) L'eureka! di Archimede non è solo l'entusiasmo per la soluzione di un problema, è la meraviglia per l'armonia, l'accordo nascosto che si rivela. L'essere che si disvela alla conoscenza, nello stato nascente scientifico, fa trasparire l'assoluto ed è intriso di religiosità e di moralità.

Quando Galileo ha scoperto la legge del pendolo e il moto dei gravi ha avuto nettissima l'impressione che gli fosse stata rivelata la struttura essenziale dell'universo, il linguaggio con cui Dio aveva ordinato il mondo. (...) Il fatto che la scienza possa esistere solo se queste affermazioni sono fatte in modo da essere confutabili, non ha nessun rapporto con l'esperienza di disvelamento, alétheia, di qualcosa che era al di là, perfetto nella sua esistenza» (p. 81).

E' vero, ed è anche ben detto, ma questo contrasta con il radicale relativismo scientifico affermato poco prima.

b) C'è una frequente confusione fra il piano dei fatti e il piano delle norme morali, che sono due piani diversi. Per esempio, per quanto riguarda la morale sessuale (cfr per es. pp. 159 ss.) si compie una descrizione —in sé abbastanza discutibile— di una situazione di fatto, di valori più o meno condivisi, di comportamenti più o meno diffusi, dando implicitamente a questa descrizione di fatto un valore di normatività. La cosa per certi versi peggiore è che l'autore non sembra rendersi conto che questa differenza di piani esiste e che dovrebbe essere mantenuta.

c) Sono abbastanza frequenti affermazioni che —a essere prese sul serio e letteralmente— sono del tutto sbagliate o assurde, ma dal contesto del libro sembra che l'Autore non le ritenga poi vere nel modo in cui le ha enunciate. Il problema è che rifugge totalmente dalle distinzioni, che in un ragionamento serio sono necessarie, ma che fermerebbero questa sua cavalcata poetica nell'universo. Il suo modo di ragionare sembra che vada preso come se fosse semplicemente evocativo.

Un esempio:

«Noi immaginiamo che l'universo, le stelle, i pianeti, le piante, gli insetti, i sassi, i colori, le forme, i triangoli e le leggi fisiche continuerebbero ad esistere anche senza gli uomini, senza che ci sia qualcuno che li veda, li pensi, li nomini. Invece non è così. Il mondo è continuamente creato e ricreato dalla nostra conoscenza, dal nostro metodo di ricerca. Ogni volta che avviene una rivoluzione scientifica, o un progresso scientifico radicale, il mondo cambia». (p. 103)

Dal contesto si comprende poi che probabilmente quello che intendeva dire Alberoni è che cambia la nostra percezione del mondo, anche se le frasi riportate mettono inequivocabilmente su una strada sbagliata. Ma sembra quasi che l'abitudine a questo modo di dire faccia sì che lui stesso non avverta più il paradosso che c'è in certe affermazioni.

d) In molti casi i problemi sono mal posti. Anche qui, facciamo un esempio:

«Possiamo dire che il fatto di essere religiosi, di credere in Dio, ha assicurato una moralità particolarmente pura ed elevata? No» (p. 131).

Vero, ma il problema del rapporto fra religiosità e moralità non può essere se la religiosità assicura una moralità elevata, ma solo se la aiuta, la favorisce, o meno. Una moralità come vita morale dei singoli non può essere assicurata da nessuno perché c'è di mezzo la libertà. E poi bisogna distinguere fra religione e religione.

e) Sul fatto che non ci siano norme universali valide per tutti i tempi viene applicato un sofisma molto frequente, che consiste nel dare qualche esempio e da lì inferire una generalizzazione: ab uno disce omnes. Alberoni fa l'esempio di qualche comportamento che prima era considerato cattivo e ora non più, e viceversa; da lì conclude che non ci siano norme valide in modo permanente. Ma la fallacia è molto chiara: i cattolici, che affermano che esistono norme universali, non affermano che tutte le norme (strettamente morali oppure sociali, ecc. ecc.) sono universali e valide per sempre in tutte le loro determinazioni e concretizzazioni, ma che alcune, nella loro essenza, lo sono. Il fatto che alcune norme possano cambiare non contraddice questa affermazione, e quindi dare qualche esempio non serve a niente. Bisognerebbe confutare qualsiasi norma affermata come universale. (Fra l'altro in questo tipo di ragionamenti è frequente passare indebitamente dal fatto —si vive così nella maggioranza dei casi— all'affermazione della norma).

Alcuni aspetti particolari

a) Per quanto riguarda il cristianesimo e l'esistenza di Dio, la posizione è fortemente ambigua. Nel libro si parla di Dio a più riprese, a volte nello stesso modo in cui ne parlerebbe un cattolico. C'è anche —per esempio— una giusta distinzione fra il misticismo cristiano (fusione amorosa con Dio) e le forme di misticismo orientale, che sono tutt'altra cosa (p. 127). L'autore afferma inoltre che nei grandi mistici cristiani, come san Francesco e la vivente Madre Teresa, l'amore di Dio sfocia in un grande amore per il prossimo (p. 128).

Ma poi quando si parla esplicitamente di Dio e della religione sembra che si tratti di una costruzione umana. Anche qui, come al solito, la cosa non è chiarissima e l'autore rimane in una certa ambiguità, anche se fortemente spostata verso il soggettivismo. Parlando di Dio, parla dell'"esigenza" che ha l'uomo di un Dio, e di come la figura di Dio risponda a esigenze dell'uomo. Si arriva ad affermazioni come la seguente:

«Le concezioni di Dio si evolvono con l'umanità, si modificano da un popolo all'altro, da una fase storica all'altra. Non c'è mai, nella religione, nulla di più di quanto non ci sia nella società di cui essa è un aspetto e una manifestazione» (p. 131).

Anche in questo caso il discorso è viziato dalla mancanza di una posizione esplicita e radicale del problema: esiste Dio o no? Il cristianesimo è una religione rivelata, che consegue a un intervento di Dio nella storia o no? Il ragionamento superficialmente sociologistico di Alberoni fa sì che si stia sempre in una posizione intermedia fra una descrizione di fatti e un'affermazione di valori che non aiuta a chiarire le idee né a chi scrive né a chi legge. Manca una posizione radicale (filosofica, metafisica) dei problemi, condizione indispensabile perché si possa tentare di arrivare a una soluzione.

b) Dicotomia ragione-cuore. C'è, in tutto il libro, una impostazione errata dei rapporti fra intelligenza e affettività, fra ragione e cuore. Il punto centrale è una svalutazione —conseguenza del cammino delle più diffuse correnti filosofiche degli ultimi secoli— della capacità dell'intelletto umano di arrivare al vero, al reale, anche nel campo esistenziale e non solo in quello fisico-matematico o comunque scientifico. Per questo Alberoni confonde ragione con razionalismo, quelle che lui chiama pascalianamente "ragioni del cuore" con quelle che sono ragioni che trova la ragione e che semplicemente bisogna seguire mettendole in atto (con un atto di volontà buona, che però è aiutata e non ostacolata dalla ragione; caso mai è ostacolata dall'egoismo o dalle passioni). In realtà non c'è —come invece in Alberoni— una dicotomia fra intelligenza e amore, se l'intelligenza è intelligenza e non razionalismo chiuso.

CONCLUSIONE

Come si sarà già potuto notare ci troviamo davanti a un libro che ha qualche pagina bella, qualche osservazione acuta, soprattutto sul piano psico-sociologico, ma che non ha rigore intellettuale né tantomeno consistenza scientifica.

E' una espressione del tutto emblematica dell'attuale cultura dominante, quella del "pensiero debole" o del cosiddetto "postmoderno", che rifugge da qualsiasi verità assoluta per avversione nei confronti della metafisica e per l'immotivato timore che si cada nell'intolleranza. A questo Alberoni unisce un certo sentimentalismo, la sua teoria dello "stato nascente" come momento di grazia (volgarizzazione semplificata di Bergson) opposto alla chiusura e alla rigidità dello status quo. La proposta è la solita morale dei buoni sentimenti, contro l'egoismo e le sopraffazioni, che però non ha nessuna forza e nessun fondamento. E —per esempio— nel campo della morale sessuale non si rende assolutamente conto di come ci sia una oggettività dei comportamenti e dei loro significati che sia assolutamente più forte di qualsiasi presunta "buona intenzione" con cui vengono compiuti atti che restano oggettivamente ingiusti e dannosi per chi li compie, oltre che offesa a Dio.

Può darsi che l'intenzione del libro fosse buona: i segni di una barbarie che si sta diffondendo fanno riflettere sulla necessità di una morale per la nostra società. Forse questo carattere intellettuale di irenismo eclettico del libro, su cui ci siamo già soffermati, è frutto del tentativo di trovare adesioni allargate, quasi di formulare una summa morale della nostra società in cui tutti si possano riconoscere. O forse, più banalmente, è dettato dal desiderio di accontentare un po' tutti, se non da semplice confusione intellettuale.

In fondo i temi di questo libro sono gli stessi temi trattati, con ben altro rigore e profondità, da Giovanni Paolo II nell'enciclica Veritatis splendor, che questo libro ha preceduto di poche settimane. Leggendo l'enciclica si ha la migliore risposta a tutti i contenuti di quest'opera.

Il libro contiene anche affermazioni sparse, contrarie alla dottrina della Chiesa (ad es., contro l'esistenza dell'inferno, contro la giustizia di Dio, ecc.).

 

                                                                                                                          (1993)

 

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