GADAMER, Hans Georg

Ermeneutica e metodica universale

Ed. Marietti, Torino 1973, pp. 287.

(t.o.: Kleine Schriften, I)

Il presente volume raccoglie diversi saggi di Gadamer, scritti tra il 1945 e il 1967. E' un'opera molto utile per lo studio del pensiero gadameriano, perché fa comprendere le premesse storico-speculative dell'opera maggiore Verità e metodo; inoltre, poiché si tratta di saggi brevi, è più facile cogliere i punti essenziali della sua teoria ermeneutica, che, nella molteplicità di riferimenti storiografici dell'opera suddetta, appaiono meno evidenti. Siccome alcuni brani sono posteriori a Verità e metodo, contengono talune rettifiche e le risposte di Gadamer alle critiche ricevute soprattutto da Habermas.

L'opera è curata da Umberto Margiotta; la traduzione lascia a desiderare in diversi punti. Il curatore, oltre ad una breve introduzione, aggiunge alla fine un proprio scritto intitolato Ermeneutica e metodica universale. Dalla progettualità educativa alla pedagogia come scienza (pp. 259-287), in cui vengono accolte con entusiasmo le riflessioni di Gadamer e l'impostazione teoretica di Heidegger. Margiotta sembra non rendersi conto che sulla base del pensiero di entrambi i filosofi l'educazione è priva di ogni progettualità, giacché risulta impossibile esprimere un giudizio sui fini della pedagogia, sul ruolo dell'educatore e sull'identità dell'educando: restano solo dei criteri approssimativi utili per instaurare un dialogo, esercitare la tolleranza e la comprensione, non imporre un modello autoritario.

I saggi di Gadamer qui raccolti sono i seguenti: Sull'originarietà della filosofia (pp. 9-45), scritto tra il 1945 e il 1947; Retorica, ermeneutica e critica dell'ideologia (pp. 46-73), di cui non è indicata esplicitamente la data di composizione, ma si deduce dal contenuto che è stato scritto attorno al 1967; L'universalità del problema ermeneutico (pp. 74-91), del quale non è menzionata la data; La natura dell'oggetto e il linguaggio delle cose (pp. 92-106), risalente al 1960; Uomo e linguaggio (pp. 107-118), di cui non è detta la data di composizione; I fondamenti filosofici del XX secolo (pp. 119-144), del 1962; Sulla possibilità di un'etica filosofica (pp. 145-164), scritto nel 1961; Per una pianificazione del futuro (pp. 165-193), del 1965; Il problema della storia nella filosofia tedesca contemporanea (pp. 194-207), del 1943; Causalità nella storia? (pp. 208-222), risalente al 1964; La continuità della storia e l'attimo di esistenza (pp. 223-240), composto nel 1965; Martin Heidegger e la teologia di Marburg (pp. 241-258), del 1964.

In tali saggi vengono presi in esame diversi argomenti, anche se sinteticamente. Rifacendomi quasi letteralmente al testo, cercherò di soffermarmi sulle principali questioni tematiche, dandone un breve commento. Non prenderò direttamente in considerazione i riferimenti all'etica filosofica, perché sono limitati soltanto ad uno dei saggi e presuppongono la globalità della teoria ermeneutica. A quest'ultimo riguardo, comunque, sono utili i rilievi critici contenuti in A. Rodríguez Luño, Etica, Le Monnier, Firenze 1992, pp. 25, 67 e 86; inoltre sono molto precise le osservazioni di Enrico Berti (nell'articolo La philosophie pratique d'Aristote et sa réhabilitation récente, «Revue de Métaphysique et de Morale», 2/1990, pp. 249-266) sull'interpretazione gadameriana della filosofia pratica aristotelica.

Prima di procedere all'esposizione, premetto che talune affermazioni contenute nel presente volume (ad esempio, riguardo alla preminenza del linguaggio, alla filosofia pratica e al ruolo della filosofia, al riconoscimento di una dimensione ineffabile) sono state in seguito precisate o sfumate da Gadamer. Sembra che restino, comunque, in vigore tutte le basi teoretiche.

La polemica contro l'ideale metodico della scienza

Obiettivo polemico di tutto il pensiero di Gadamer è il predominio nell'epoca attuale del modello scientifico di conoscenza, secondo il quale solo con i procedimenti scientifici si raggiungerebbe la verità e si eviterebbero i falsi preconcetti culturali. Questa critica è un aspetto indubbiamente positivo della proposta gadameriana, che riprende e sviluppa le riflessioni di Heidegger sui pericoli dell'impero tecnologico.

Secondo Gadamer, la scienza persegue l'ideale di una concezione universale libera da premesse e oggettiva, ma questo suo autolimitarsi all'oggettività è privo di valore e la sua indipendenza dalla filosofia è un autoinganno (p. 12). Basterebbe considerare, ad esempio, che anche la scienza statistica anticipa riflessioni e considerazioni sui problemi ai quali è chiamata a rispondere (p. 83), proprio per elaborare il procedimento di raccolta dei dati: sembra impossibile, quindi, un atteggiamento previo di completa estraneità ed asetticità.

Oggi, però, la filosofia è vista come dipendente o conseguente rispetto alla scienza moderna la cui metodicità impone il comportamento del progettare, del fare, del dominare (p. 26). In tutti i campi della vita, perfino in quello formativo, regna l'ideale della pianificazione cosciente e dell'autorità precisamente funzionale (p. 123) ed efficace. Anche in politica, l'idea di ordine internazionale racchiude quella di una perfetta amministrazione del mondo, in cui domini l'ordine senza un contenuto specifico; all'ideale amministrativo appartiene l'ideale della neutralità: non importa di quale ordine si tratti, ma il suo buon funzionamento (p. 173).

Perciò Gadamer ritiene che sia la scepsi contro ogni dogmatismo, anche quello della scienza, ad essere il fondamento più nascosto, ma allo stesso tempo più potente del nostro secolo (p. 144). Allo stesso tempo appare necessario ricondurre la filosofia al suo compito originario, giacché in epoca moderna la teoria diventa strumento per il dominio pratico, cessa di essere una posizione dell'uomo di fronte alla vita e con ciò cessa di rivendicare qualcosa di più che una verità relativa (p. 146).

Va rilevato, comunque, che ci sono talune affermazioni ambigue sulle scoperte scientifiche, anche se l'ambiguità potrebbe essere dovuta alla traduzione (p. 171).

La ripresa dei temi dell'idealismo hegeliano

Gadamer sottolinea il valore positivo dell'eredità dell'idealismo tedesco e soprattutto di quello hegeliano. E' proprio il suo collegamento con la problematica dell'hegelismo che spiega perché l'obiettivo dell'ermeneutica gadameriana è quello di una metodica universale, di una teoria assoluta, che abbracci ogni campo e risolva ogni contrasto. Ciò va ricordato, giacché non si possono isolare taluni concetti (senz'altro interessanti, presi singolarmente) da tale contesto teoretico.

Inoltre le sue ricostruzioni della storia delle idee sembrano risentire di una visione hegeliana ed heideggeriana: un'unica parabola, senza soluzioni di continuità, porterebbe dai Greci fino ai giorni di Hegel (p. 13); la metafisica greca e il Medio Evo scolastico sono liquidati, perché non riconoscono il prius della linguisticità dell'esperienza del mondo, preliminare rispetto alle cose e allo spirito umano (pp. 102-103); anche la metafisica creazionistica, dopo un confuso riconoscimento, è abbandonata per percorrere la via della lingua, grazie alla quale non si deve ricorrere all'infinitezza dello spirito divino (p. 99). Talvolta, poi, sorgono dubbi sulla validità della sua interpretazione storica, come quando viene sottolineato il ruolo della Chiesa cattolica nella cultura borghese del XIX secolo (p. 123).

Uno dei più grandi risultati della filosofia tedesca degli ultimi decenni —scrive Gadamer tra il 1945 e il 1947— è quello di aver mostrato l'incertezza del concetto di oggetto, su cui pretende di basarsi l'ideale della scienza (p. 12). Nessuno ha compreso, meglio dell'Idealismo tedesco, che la coscienza e il suo oggetto non costituiscono due mondi separati; sono soltanto le parti di un insieme; ogni distacco forzato del puro soggetto e della pura oggettività sarebbe un dogmatismo del pensiero (p. 133).

Viene senz'altro riconosciuto il valore delle critiche esistenzialistiche alla fede hegeliana nella ragione (p. 14), ma d'altro canto Gadamer sostiene che lo svuotamento dell'idealismo, anche ad opera del moralismo borghese, ha portato al pervertimento del vero e all'accentuazione del ruolo della volontà (p. 16). Perciò appare necessario restaurare sul terreno di una critica spirituale radicale del secolo scorso il compito che la Fenomenologia dello spirito di Hegel si impegnò ad assolvere: è ora che il rapporto dell'impulso e dello spirito conduca ad una nuova mediazione (p. 21).

E' considerata di importanza fondamentale la critica hegeliana allo spirito soggettivo (p. 126), che viene rafforzata e radicalizzata dalle critiche demistificanti della coscienza soggettiva di Nietzsche, Marx e Freud, fino a Husserl, Scheler e Heidegger. Perciò, senza voler arrivare allo stadio assoluto della dialettica hegeliana, va ripresa la funzione dello spirito oggettivo, che viene assolta dalla lingua: nella lingua, nella linguisticità della nostra esperienza del mondo, sta la mediazione di finito e infinito, che ci è conforme in quanto siamo esseri finiti (p. 105).

A conferma del proprio intento di prosecuzione del compito hegeliano, Gadamer ne riconosce la validità anche in altri ambiti e si chiede: non ha forse ragione Hegel quando, invece che nell'autonecessità di un'etica imperativa, vede l'eticità nel costume, cioè nella sostanzialità dell'ordine etico che prende corpo nelle grandi oggettivazioni-tipo, famiglia, società e Stato? (p. 152; cfr. pp. 126 e 164).

Per mettere in evidenza gli altri collegamenti fondamentali del pensiero di Gadamer con la storia della filosofia, sono utili due brevi annotazioni: il mio tentativo specifico —ammette— si ricollega alla ripresa dell'eredità del romanticismo tedesco compiuta da Dilthey (p. 46), anche se dello stesso Dilthey vengono sottolineati i limiti (p. 202). C'è poi una significativa ammissione: noi giovani della Marburg neokantiana non sapevamo assolutamente niente della Scolastica (p. 138).

Ma è soprattutto evidente, e ammesso dall'autore, l'influsso della filosofia kantiana, della quale —pur rilevandone il legame con il modello della conoscenza scientifica naturale nel modo di affrontare il problema storico (p. 196)— viene riconosciuto il merito di aver mostrato l'impossibilità di fondare teoricamente la volontà e la libertà (p. 220); ciò spiega il silenzio di Gadamer su questi argomenti e l'assenza di ogni organico riferimento ad un'antropologia, alla natura dell'uomo e, pertanto, anche al bene e alla verità in sé.

Infine, è utile tenere presenti quali sono, secondo Gadamer, i tre grandi punti di riferimento per la filosofia odierna: 1. il pensiero dei Greci, in cui sono uniti parola e concetto; 2. Kant, con la sua differenza tra pensarsi e riconoscere; 3. Hegel e la sua nozione di spirito oggettivo che trascende la soggettività dell'Ego, e che trova la sua analogia nel fenomeno della lingua (p. 143).

Teoria ermeneutica e storicità della verità

Concordando in questo con buona parte degli esponenti dell'ermeneutica contemporanea, Gadamer afferma che, dopo le critiche dell'esistenzialismo, di Dilthey e di Nietzsche, alla filosofia si impone il problema di spiegare che cos'è la verità se è dipendente dal movimento storico-temporale della nostra esistenza (p. 17). Da ciò nasce la prospettiva ermeneutica, che deve assumere un ruolo critico-positivo nei confronti dei sistemi filosofici.

Bisogna riconoscere —sostiene— tre premesse ingenue che persistono nel pensiero odierno: 1. l'ingenuità della posizione; 2. l'ingenuità della riflessione; 3. l'ingenuità del concetto. L'ingenuità della posizione viene fatta risalire ad Aristotele e sarebbe il tentativo di mostrare l'esistenza di una pura percezione o di una pura espressione; essa è messa in luce dalle critiche di Nietzsche, Scheler, Lipps, Heidegger. L'ingenuità della riflessione sarebbe la posizione di chi sostiene che la riflessione esercita una funzione oggettivante, mentre già Aristotele riconosceva che ogni percezione è percezione del percepire e del percepito insieme; a ciò si richiamano le nozioni di esistenza di Jaspers e Heidegger. Infine, l'ingenuità del concetto: contrariamente a chi la sostiene, va detto che i concetti non sono qualcosa che si possa impiegare indipendentemente dalla lingua (p. 140).

Se ne deduce che nella filosofia di Gadamer svolge un ruolo centrale il concetto di storicità, direttamente collegato alle interpretazioni datene dal Conte York di Wartenburg, da Dilthey, da Heidegger e da Jaspers. E' un concetto che contiene un'asserzione ontologica (p. 225): ogni comprendere —si scrive— è sempre un accadere, cioè non è un atto della soggettività ma un modo dell'Essere (p. 137).

Per arrivare a tale conclusione è determinante l'influsso di Heidegger, il quale ha apportato che l'Essere dell'Esserci è storico nel senso che non è disponibile come quello delle cose delle scienze naturali (p. 203). Con Heidegger, in effetti, Gadamer sostiene che l'ontologia tradizionale non era in grado di cogliere la problematica ontologica del tempo (p. 227). Nel legare direttamente l'essere al tempo, l'uomo alla storia e la verità alla mutevolezza della comprensione, viene condizionata la conoscenza umana e la possibilità stessa di cogliere la verità. Si afferma, in effetti, che la storicità è fondata sul modo di Essere dell'uomo, che è nella storia e può essere radicalmente compreso nel suo Essere stesso soltanto attraverso il concetto di storicità (p. 226). In questa prospettiva nulla appare con una validità assoluta, giacché nella continuità della storia ogni trascorrere è sempre un divenire (p. 227).

Nella teoria ermeneutica gadameriana c'è quindi un'invalicabilità delle condizioni storiche, in cui l'uomo è immerso e da cui è determinato. Esplicitamente viene scritto: proprio in questo sta la realtà della storia, nell'esistere e nel determinarci senza che noi possiamo mai dominarla attraverso un'analisi di causalità (p. 222). Proprio a causa di queste conclusioni il pensiero di Gadamer viene criticato, soprattutto da J. Habermas ma anche da G. Vattimo, e viene definito come totalitarismo della tradizione o etica della continuità: se la situazione dell'uomo fosse quella descritta, non sarebbero mai possibili esperienze di rottura trasformatrice nei confronti della tradizione e di critica radicale dei condizionamenti storico-ideologici.

Lo stesso Gadamer, comunque, si rende conto della problematicità di alcune sue tesi e giunge a riconoscere che la conclusione contenuta nella terza parte di Verità e metodo è troppo incompleta e schematica (p. 61) (la terza parte di quest'opera è quella propositiva, mentre le prime due svolgono il ruolo di preparazione storica). In parte ha cercato di precisare meglio qualche punto, ma la struttura portante resta intatta. Infatti anche se afferma che la sua ermeneutica vuole denunciare ogni dogmatismo esistente tra la tradizione vivente, naturale e la sua appropriazione riflessa (p. 58), subordina l'efficacia della comprensione alla dipendenza esistenziale, e in un certo senso costitutiva, dalla storia.

Basti considerare quali sarebbero le tre condizioni di possibilità del comprendere storico: 1. Il comprendere storico è possibile solo introducendosi nel circolo ermeneutico (p. 204). 2. Il comprendere storico è possibile perché ci si trova nella concatenazione effettuale della storia. Così l'avvento della prospettiva nella pittura implica la scelta di un punto di vista e un dato rapporto di esistenza con le cose; la verità storica corrisponde non alla trasparenza di un'idea, ma all'impegno di una risoluzione irripetibile (p. 205). 3. Il comprendere storico è possibile soltanto se si accetta di lasciarsi dire qualcosa dall'incomprensibile (p. 206), cioè si avverte la necessità di captare una lontananza, di superare una alterità, di costruire un ponte tra il passato ed il presente (p. 51).

Va detto che nelle sue argomentazioni in difesa del ruolo della tradizione nella comprensione e dell'ineludibilità della dimensione storica Gadamer sottolinea questioni davvero importanti e anche condivisibili; inoltre, sono molto pertinenti le risposte date alle critiche rivoltegli dai fautori delle scienze sociali o della psicoanalisi (pp. 64 e 73); ma il problema sorge nelle conclusioni finali, quando si afferma che la verità della storia appare come ciò che di permanente e di stabile c'è nella nostra esperienza, nell'accadere della rappresentazione; noi sperimentiamo la continuità e la discontinuità della storia (p. 235); oppure: proprio così si sperimenta la verità della storia: qualcosa che, per il fatto che è accaduto, c'è, e non si può fare in modo che non sia accaduto (p. 230); o ancora: la ragionevolezza significa non esistere indipendentemente dai fattori naturali e storici (come ha mostrato M. Scheler), perciò la verità si matura progressivamente come un processo storico (p. 20). Come si è detto, si è avverte tutta la chiusura dell'orizzonte storico, come quello di una falsa infinità.

La natura dell'ermeneutica è chiarita a partire soprattutto da due esperienze di alienazione per distacco: la coscienza estetica e la coscienza storica. La coscienza estetica attua un distacco alienante rispetto all'opera d'arte che ci è invece intimamente familiare. Il giudizio critico che essa formula decide del vigore espressivo e della validità dell'opera (p. 76). La coscienza storica assume una vana pretesa di obiettività nei confronti della tradizione e del passato (p. 77). Il fallimento di queste due esperienze porta a sostenere, come si è detto, la necessità per il comprendere storico di essere inseriti in un circolo ermeneutico, il cui concetto, di matrice heideggeriana, viene provocatoriamente formulato così: non tanto i nostri giudizi quanto piuttosto i nostri pregiudizi costituiscono il nostro essere (p. 81).

Per Gadamer la nostra comprensione storica —cioè, ogni conoscenza umana— è determinata da una coscienza storico-effettuale: non avanziamo verso il passato come verso un oggetto, ma noi stessi siamo effetto di un avvenimento che ci interpella (p. 236). Perciò il fenomeno ermeneutico originario consisterebbe in questo: ogni risposta ad un problema o ad un interrogativo implica i fatti (p. 84), presuppone, cioè, un legame storico-effettuale con quanto si vuol capire e il riconoscimento del potere instancabile dell'esperienza, la quale in ogni lezione che ci dona ricrea instancabilmente una nuova precomprensione (p. 69). Nell'interpretazione si esprime la stessa esperienza del mondo che comporta sempre la compiutezza della nostra tradizione storica (p. 258).

Ciò significa che ogni comprensione è provvisoria e soggetta al ritmo della storia. Significativamente Gadamer sintetizza così il rapporto ermeneutico fondamentale: «molto resta da dire» (p. 258).

Universalità del linguaggio

Indissolubilmente unita alla sua teoria ermeneutica, c'è la concezione gadameriana del linguaggio, che, come si è visto, si ricollega alla nozione hegeliana di spirito oggettivo.

La lingua, secondo Gadamer, è una struttura di idee, che rispecchia il progressivo emergere della filosofia (p. 30). Anche in quest'ambito, quindi, assume preminenza la storicità: il rapporto tra parola e contenuto si realizza sempre in un preciso orizzonte di condizioni (p. 33), mentre in Platone e Aristotele sarebbe mancata proprio questa dimensione storica della lingua (p. 34). Siccome la comprensione avviene solo grazie alla concatenazione storico-effettuale in cui siamo coinvolti, tale coinvolgimento acquista la sua espressione più piena proprio nella lingua. C'è pertanto un legame inscindibile tra pensiero e linguaggio: come diceva Hölderlin, la lingua non è uno strumento con cui ci esprimiamo, ma è la lingua che ci esprime (p. 38); il comprendere è legato al linguaggio (p. 89); tutto il pensiero è confinato nelle vie del linguaggio sia come limitazione sia come possibilità (p. 142).

Nella lingua vengono sottolineate tre caratteristiche: 1. L'oblio di se stesso: quanto più la lingua è viva esecuzione, tanto meno si è coscienti di essa. 2. La mancanza dell'Io, ovvero l'appartenere alla sfera del Noi, del discorso che unisce. 3. L'universalità della lingua, poiché non c'è nulla che possa esser sottratto per principio all'esser detto; il discorso ha una sua interna infinità (pp. 113-118).

In piena sintonia con Heidegger, l'uomo appare in Gadamer in balia della lingua, come ci è apparso inevitabilmente sommerso nell'orizzonte e nel divenire della storia. Egli afferma che nel discorso, come nel gioco, si viene trascinati via; non è in ciò più determinante la volontà del singolo che si trattiene o si evidenzia, ma la legge della cosa su cui si discorre, e che attira il discorso (p. 115). All'essenza del linguaggio apparterrebbe in modo assoluto una inconsapevolezza abissale dello stesso. L'effettivo enigma del linguaggio —scrive— è però questo, che noi in verità non lo conosciamo mai completamente. Noi possiamo pensare solo in una lingua, e appunto questo abituarsi del nostro pensiero ad una lingua è il profondo enigma che pone il linguaggio di fronte al pensiero (p. 110).

La linguisticità così intesa caratterizza pertanto tutto il nostro modo di esistere: la forma filosofica dell'esistenza è necessariamente una forma verbale (p. 35). Nel linguaggio sorge davanti a noi non solo ciò che pensiamo e sappiamo di noi stessi, ma anche ciò che noi siamo; in esso cogliamo l'interpretazione e la appropriazione di ciò che vi è di noi in ogni rapporto che costituisce il nostro mondo; è il gioco cui siamo tutti partecipi (p. 62). Il linguaggio è come la tradizione che apre e delimita il nostro orizzonte storico; nel linguaggio, nel linguaggio delle cose che vengono al linguaggio, è possibile l'esperienza, conforme alla nostra finitezza, di quell'analogia [termine usato qui in modo ambiguo] tra l'anima e le cose create (p. 106). Imparare a parlare significa (...) acquistare conoscenza e familiarità del mondo stesso, così come esso ci incontra (p. 111).

Linguaggio e storicità appaiono quindi del tutto sovrapposti, se non identificati: la costituzione linguistica del mondo si presenta come una coscienza inserita nel divenire storico; il linguaggio evolve secondo un processo finalizzato (p. 86). Gadamer si propone l'obiettivo di mostrare il carattere essenzialmente linguistico di ogni esperienza umana del mondo, dal momento che quest'ultima si realizza in una contemporaneità che costantemente si rinnova (p. 46). Viene indicata, quindi, l'universalità del carattere linguistico dell'uomo: è sempre necessario comprendere e farsi comprendere; bisogna arrivare ad appropriarsi della tradizione instaurando un mondo unico che abbraccia storia e presente (pp. 54-55), e quest'obiettivo è raggiungibile proprio tramite il linguaggio. In effetti, c'è sempre una mediazione nella comprensione di epoche storiche trascorse e tale mediazione è data dal linguaggio; se c'è una possibilità espressiva, l'intervallo è superato nella mediazione. La lingua ha il suo effettivo adempimento solo e soltanto nel dialogo, tra il presente e il passato, tra interlocutori, tra diverse epoche storiche. Si parla sempre per comunicare e ciò vale anche per l'opera d'arte e per la tradizione storica (p. 238).

Non è discutibile il legame tra il linguaggio e il pensiero, ma il modo di presentare quest'ultimo in dipendenza dal primo. Tale impostazione è dovuta alla concezione di storicità su cui si fonda: se l'uomo è un essere essenzialmente storico, la sua conoscenza si può attuare solo all'interno delle coordinate storiche offertegli dal linguaggio. Quindi, benché non negata sistematicamente, viene di fatto preclusa ogni possibilità di una metafisica, di un'autentica conoscenza della verità assoluta, di un rapporto conoscitivo con Dio.

 

                                                                                                                  F.R. (1994)

 

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