HORKHEIMER, Max; ADORNO, Theodor W.

Dialettica dell'Illuminismo

Ed. Paperbacks, Torino 1980, 281 pp.

A. ESPOSIZIONE

1. La Scuola di Francoforte.

Questo appellativo designa il gruppo di pensatori adunati intorno Max Horkheimer (Stoccarda 1985 — Lugano 1973), animatore dell'Istituto per la Ricerca Sociale (Institut für Sozial forschung), creato nel 1924, e del suo organo di espressione: il Giornale di Sociologia (Zeitschrift für Sozialforschung), che apparve dal 1932 al 1938. Tra i principali componenti della prima generazione possono annoverarsi: T. Adorno, suo cugino W. Beniamin, H. Marcuse, E. Fromm, L. Löwental, Pollock, Kafka, ecc.; e J. Habermas nella seconda.

2. I loro campi d'interesse.

I loro campi d'interesse si desumono dal nome stesso dell'Istituto: la società e quanto la riguarda: le sue componenti, le sue manifestazioni (culturali, artistiche, ecc.; concretamente molti di loro sono ben noti come filosofi dell'arte). Ma perché si preoccupano della società? Ovviamente sono spinti dall'importanza vitale del tema. Ora, la società in cui vivevano i Francofortesi appariva rovinata, ingiusta. Bisognava quindi capire le ragioni interne dello sfacelo per correggere quanto fosse necessario e tramandare ai posteri un modello sociale più valido. Ma scoprire le ragioni ultime di un evento non è altro che filosofare. I componenti della Scuola possono qualificarsi con pieno diritto come filosofi e non solo come sociologi: filosofi di una società in continua evoluzione, filosofi dell'uomo e della storia. Sono, per tanto, lontani dall'odierno "pensiero debole", di una epoca di crisi filosofica qualificata come postmodernità e caratterizzata dalla diminuzione della capacità di individuare i problemi di fondo.

Forse il merito principale dei Francofortesi e il loro più importante insegnamento, risiede nell'aver richiamato l'attenzione sugli avvenimenti sociali contemporanei ed averne innescato la corrispondente riflessione. Le soluzioni da loro proposte appaiono però meno convincenti anche ai propri seguaci, i quali non esitano oggi a criticare aspetti nucleari della loro teoria.

3. Sociologia empirica e sociologia filosofica.

Per fare prima una diagnosi e poi una terapia delle malattie della società, bisognava innanzi tutto prenderle il polso, sviluppare cioè una sociologia empirica che ne  cogliesse i dati di fatto.

Avvalendosi dei metodi sociologici portarono a termine ricerche su alcuni elementi sociali[1]. Ma allo stesso tempo non risparmiarono duri attacchi contro la sociologia empirica; attacchi che non possono non sorprendere i lettori non consapevoli che il bersaglio è un tipo di sociologia empirica, o  meglio, un certo uso di essa. Si "demonizza" infatti quell'impiego che si arresta alla raccolta e sistematizzazione dei fatti, che cerca di fotografare la situazione sociale di un momento concreto e fugge dall'interpretarla e darne soluzioni.

I motivi di siffatto rigetto sono diversi.

 In primo luogo, la raccolta di sintomi è in vista della diagnosi, e questa, della terapia; fermarsi, quindi, equivale a collaborare con la malattia (in questo caso con l'ingiustizia in atto). E' come passare con armi e bagagli alle file dell'oppressore. In secondo luogo, perché non volendo interpretare si sta interpretando. Infatti la convinzione che si possa fotografare o rispecchiare una situazione è conseguenza di una precisa dottrina della conoscenza, concretamente di una determinata dottrina astrattiva.

In terzo luogo, infine, fotografare o immobilizzare una situazione presuppone una dottrina circa la realtà: una teoria opposta allo storicismo dei Francofortesi.

4. Fonti a cui si ispirano.

Contrariamente a quanto pretendeva la sociologia empirica, i componenti della Scuola si consacrano alla prassi. Benché siffatta scelta rechi con sé il trascurare la parte teoretica. E sebbene non sia stata fatta finora piena luce sui principi che guidano la ricerca di questi Autori, se ne possono ricavare alcuni dall'esame di quell' humus intellettuale di cui si sono nutriti.

Horkheimer, anima del gruppo e figlio di un facoltoso commerciante tedesco, era avviato alla stessa carriera. Ma la forzata riflessione impostagli dalla chiamata alle armi nel 1917, e il decisivo incontro con Friederick Pollock cambiarono e marcarono la sua vita.

Pollock —di cui resterà amico fedele fino alla morte, ed a cui dedicherà alcuni dei suoi libri— era uno studioso di economia politica. Al suo tempo, interpretare gli eventi sociali in chiave economica non era affatto strano, dato che Marx era ancora molto in voga e che le sue teorie economiche e filosofiche non erano state ancora smentite dai fatti come accade oggi. Ma Engels e Marx erano già stati criticati da Lukács tramite il concetto di "reificazione" sviluppato nella Storia e coscienza di classe, (1922). Il fulgore dei fondatori del marxismo arriva quindi ai Francofortesi attraverso il prisma dell'ungherese[2].

Orbene l'impalcatura filosofica marxiana fu allestita da Hegel con materiali forniti soprattutto da Kant. Gran parte degli elementi adoperati, modificati o rifiutati dai Francofortesi, e con i quali bisogna fare i conti, sono di origine kantiana ed hegeliana: sistema, dialettica, ragione, illuminismo, critica, ecc.

Minore influsso hanno esercitato Husserl (ascoltato da Horkheimer a Friburgo) e Heidegger (bersaglio di Adorno e maestro di Marcuse; ampiamente presente nelle opere iniziali di quest'ultimo).

Se i massimi esponenti della razionalità e del pensiero sistematico hanno lasciato la loro indelebile impronta nei lavori della Scuola, non meno marcata è quella dei pensatori irrazionalisti: Schopenhauer (letto da Horkheimer all'età di 18 anni e di cui si dichiara discepolo) e Nietzsche. Dal canto suo M. Weber ha influito mediante la sua teoria della non valutabilità della scienza.

Non deve dimenticarsi neanche l'influsso che sullo stesso pensiero esercita la razza a cui appartengono molti dei nostri Autori — la ebraica — e l'antisemitismo che hanno sperimentato sulla propria pelle. Un odio tale li costrinse ad emigrare negli Stati Uniti di America durante alcuni anni, e permise loro di conoscere e riflettere su una società fino a quel momento conosciuta soltanto per sentito dire.

Inoltre, la formazione fortemente religiosa dell'ebraismo, ricevuta nella prima fanciullezza —soprattutto nel caso di Horkheimer—, ricompare nella seconda; quando, alla fine della vita, in grado diverso a seconda degli Autori, li si vede appigliarsi alla nostalgia del "totalmente Altro"[3].

Infine, non è trascurabile l'impronta dello storicismo vichiano. Il pensatore napoletano è citato esplicitamente diverse volte, ma ci si accorge costantemente della sua presenza implicita: basterebbe menzionare i passi riguardanti l'origine e sviluppo della società, e le figure di Omero e Odisseo. Non si riscontrano, invece, tracce della trascendenza della divina Provvidenza, che era il fulcro della filosofia della storia di Gian Battista Vico.

5. Importanza della "Dialettica dell'illuminismo".

I motivi per disaminare questa opera sono i seguenti:

        a) sviluppa il tema centrale della riflessione della Scuola, e cioè le relazioni individuo-società;

        b) lo fa in modo altamente teoretico, e quindi approda ad uno studio sulla natura della conoscenza;

        c) è un'opera matura: equidistante dagli abbozzi iniziali e dalle autocritiche degli ultimi anni;

        d) scritta nel 1944 e stampata nel 1947, "non poche delle idee ivi espresse sono ancora oggi [1969] del tutto valide"[4], e "sono state confermate in modo lampante" dalla storia posteriore" (p.VIII), sebbene non si debba serbare "un'immutata adesione a tutto ciò che è detto nel libro. Ciò sarebbe incompatibile con una teoria che attribuisce alla verità un nocciolo temporale" (p.VII), cioè storicistico;

        e) i contenuti "hanno determinato in larga misura il nostro ulteriore impegno teorico" (p.VII);

        f) ha influito decisivamente fuori e dentro la Scuola. Per esempio, sul lavoro più importante di Marcuse (L'uomo a una dimensione);

        g) perché è frutto della collaborazione di due autori, garanzia quindi di una migliore interpretazione del pensiero dei Francofortesi. Si tratta dei due massimi esponenti —Horkheimer e Adorno— che apportano ognuno le specifiche qualità: intuito sociologico il primo e profondità filosofica il secondo.

6. La "Dialettica dell'illuminismo'.

6.1. Antecedenti della "Dialettica dell'illuminismo'

L'indirizzo preso da Horkheimer è percepibile fin dall'inizio, quando scrisse nel 1928 i Principi di Filosofia della Storia borghese, ma si esplicitano nella serie di articoli pubblicati sul Zeitschrift für Sozialforschung e ristampati nel 1968 sotto il titolo di Teoria critica, termine coniato da Horkheimer per esprimere che i contributi dei diversi componenti dell'Istituto dovevano approdare alla elaborazione di una teoria sulla società contemporanea. Non però una teoria qualsiasi, non un sistema chiuso, finito, acquiescente alla società del momento, bensì —in polemica con Hegel— ad una teoria irrequieta, mai finita: in una parola, critica.

Il motivo di questo rifiuto sono i risultati a cui approdano i sistemi hegeliani, siano di destra o di sinistra: i governi totalitari fascisti e comunisti, stritolatori dell'individuo. Questo rifiuto è incoraggiato dallo storicismo dei Francofortesi. Ma la controversia con Hegel non osta che di lui assumano l'elemento decisivo del dinamismo storico, cioè la dialettica. La critica ricade soltanto nel tipo di dialettica: deve essere "negativa", al contrario di quanto pensava Hegel[5].

Per costruire una dottrina sociale bisognava però avviare la riflessione della società in cui erano immersi, cioè quella della prima metà del secolo XX. In quest'epoca l'umanità aveva raggiunto vette superiori a quelle immaginate dai forgiatori dell'idea del progresso ininterrotto; ma simultaneamente si era inabissata nelle immani tragedie delle due guerre mondiali. I componenti della Scuola si trovarono quindi davanti alle palese contraddizioni di una società moderna e progredita, ma allo stesso tempo barbara e retrograda. E si assunsero il compito di metterne a nudo le contraddizioni, descriverne le caratteristiche e scoprirne la logica interna, la causa ultima dei cataclismi di cui erano testimoni.

Risulta contraddittorio, infatti, che una cultura marcatamente antropocentrica trascuri e disprezzi l'uomo. Non si era mai parlato tanto della dignità e dei diritti dell'uomo, e mai questi erano stati tanto conculcati. In questo secolo la cultura umanistica ha segnato il passo di fronte a quella scientifica e tecnologica, dove il singolo è ridotto al ruolo di consumatore della produzione capitalistica, dove la macchina sembra contar più che l'essere umano[6], dove l'uomo è aggredito dalla stessa scienza e tecnica; dove le domande che riguardano il senso dell'esistenza non trovano risposte adeguate.

Alla base di siffatta società i Francofortesi individuano l'idea di progresso. Si tratta in realtà di una fede ottimistica nel progresso illimitato della scienza e nel suo fondamento: l'umana ragione. Ma una ragione autonoma, emancipata da qualsiasi imposizione esterna, cioè che rifiuta i dogmi e le tradizioni. Le contraddizioni precedentemente segnalate limitano però tale concezione ottimistica, e la qualificano —secondo l'opinione dei Francofortesi— come il "mito del progresso". Titolo che gli avvenimenti posteriori (crisi del petrolio, disoccupazione, fallimenti di imprese spaziali etc.) hanno confermato ancor di più.

E' per questo che oggi si tende non tanto al progresso "estensivo" (in quantità), bensì all'"intensivo" (alla qualità della vita).

Altre caratteristiche di codesta società sono: la autonomia della morale (libertinismo), la visione materialistica dell'uomo e del mondo, la filantropia e l'umanitarismo.

Ebbene tali caratteristiche della odierna società si trovano in misura diversa nelle precedenti, ma spiccatamente nella società settecentesca ed ottocentesca, chiamata pure epoca dei Lumi. Di modo che per i Francofortesi l'illuminismo è la struttura portante, l'atteggiamento vitale e culturale che impregna tutte le società (preistoriche, greche, attuali) e non solo quella che visse fra 1688 e 1789[7].

E' logico quindi che la riflessione sulla società sviluppata dai componenti della Scuola si identifichi con lo studio della società illuministica, intesa in senso largo. Come è stato detto, la tesi inequivocabile di quest'opera e che "la storia dell'Occidente e il percorso del processo di razionalizzazione che, sorretto dalla idea di télos emancipativo, non perverrà mai a compiuta e soddisfacente compiutezza'[8].

6.2. Origine della società.

I nostri Autori non si dimenticano di elaborare una teoria sulle origini. L'odierna società è frutto di quelle che l'hanno preceduta; ma ognuna sorge e si conserva grazie ai principi comuni. Per questo, alla stregua di Marx, Hegel e soprattutto di Vico, i Francofortesi si dilungano sulle origini di ogni società e della società primordiale. In verità, a sentirli parlarne sembra che ci raccontino fatti vissuti, qualcosa di simile alle ricreazioni che della vita animale nelle età arcaiche ci presentano alcuni divulgatori della scienza. Ma la mancanza sia di dati sia di reperti fossili svelano la verità: tali ri-creazioni sono molte volte, autentiche creazioni ex novo, fantasticherie. Non deduzioni dai fatti, bensì applicazione de uno schema preconcepito ad un insieme di dati sparsi[9].

Ovviamente non si discute la validità dei risultati; si nega invece la validità e onestà del metodo. La conseguenza è che tali descrizioni destano ammirazione per la ingegnosità, per l'acutezza de alcune osservazioni.., ma non convincono. Al riguardo, la Scienza Nuova, la Fenomenologia dello Spirito e la DI  hanno in comune parecchi punti. Un'analisi dei suddetti schemi fornisce l'ottica —i principi-- attraverso la quale i nostri Autori guardano la realtà sociale.

6.3. Il principio di autoconservazione

Ogni forma di società trae origine dal principio dell'autoconservazione o sopravvivenza. Alla stregua di Spinoza (pp. 36-37) affermano che è l'unico impulso fondamentale, la causa dello sviluppo dell'Io (p. 93). La decisione di conservare l'io non è libera, bensì "cieca" (p. 41), vale a dire naturale. A pieno diritto, quindi, può affermarsi che l'egoismo costituisce la causa dell'apparire delle società[10] e del suo conservarsi. Ad esso infatti è subordinata "tutta la vita" (p. 39), di modo che diventa "la vera massima di ogni civiltà occidentale" (p. 37).

Ma l'uomo non è l'unico abitante al mondo: convive con la natura fisica e con altri uomini. La convivenza, la vicinanza, porta necessariamente al paragone, al misurarsi. E la disuguaglianza affiora subito: vi sono esseri superiori ed inferiori al proprio io, esseri più o meno forti. La superiorità della natura e l'egoismo del più forte trasformano le iniziali relazioni naturali di forza in rapporti di dominio, di potere: per esempio, nelle società primitive la natura domina l'uomo, il maschio domina moglie e figli, i maggiori dominano i minori (quelli che non sanno autoconservarsi (p. 89)). Orbene, siffatta superiorità suscita nel debole —tramite l'istinto di conservazione — la paura di perdere il proprio io.

6.4.La scienza.

L'uomo, per superare la congenita debolezza rispetto alle forze superiori, deve sfruttare a suo vantaggio le proprie forze e qualità, principalmente la conoscenza. L'autoconservazione diviene quindi principio della scienza (p. 92) e conduce la ragione alla divisione del lavoro (p. 37).

Una ragione ed una scienza che provvedono alla sopravvivenza dell'io, alla liberazione dagli antagonisti che tendono necessariamente a dominarli. Questo non sarebbe possibile se la scienza fosse una mera "contemplazione" statica della realtà; ci vuole l'azione, la prassi. In breve, ci vuole una scienza applicata (o media, come dicevano i classici) che approdi alla tecnica[11]. Il paladino di questa concezione resta sempre Bacone[12].

Per Aristotele la scienza speculativa produceva la felicità nel saggio; ma "la sterile felicità del conoscere è lasciva per Bacone come per Lutero. Ciò che importa non è quella soddisfazione che gli uomini chiamano verità, ma l'operation, il procedimento efficace" (p. 13). Quella scienza "non tende a concetti e ad immagini, alla felicità della conoscenza, ma al metodo, allo sfruttamento del lavoro altrui, al capitale. Tutte le scoperte che riserva ancora secondo Bacone, sono a loro volta solo strumenti (...). Non c'e altro che tenga" (p. 12). Una scienza, insomma, che bada ai mezzi e non ai fini[13]. Ed è questo non guardare ai fini, che fa della scienza un docile strumento per qualsiasi mano: "Il sapere, che è potere, non conosce limiti, né nell'asservimento delle creature, né nella sua docile acquie— scienza ai signori del mondo. Esso è a disposizione' (p. 12).

L'esser diventato strumento ai danni del singolo è la maggior accusa che i Francofortesi rivolgono alla scienza ed alla ragione che la sorregge: per questo motivo viene denominata "ragione strumentale"[14].

Il compito che il filosofo britannico assegnò alla scienza fu quello di togliere agli uomini la paura, farli uscire quindi dallo stato mitico (contrapposto allo stato scientifico). Ma la conoscenza non si può arrestare mai, "non conosce limiti". Infatti le nuove scoperte recano con sé nuovi pericoli che devono a sua volta essere scongiurati. La scienza, quindi, per sua natura sta in costante progresso. Ora, una società impostata in questo modo può denominarsi illuministica. Infatti, "l'illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguitato da sempre l'obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. (...) Il programma dell'illuminismo era di liberare il mondo dalla magia. Esso si proponeva di dissolvere i miti e di rovesciare l'immaginazione con la scienza" (p. 11).

Sottomettere la natura e gli altri; pretesa comune a tutte le società illuministiche. Il cui soggetto paradigmatico è — secondo l'opinione dei Francofortesi — l'Ulisse omerico: "L'Odissea, nel suo complesso, testimonia la dialettica dell'illuminismo. (...) Il soggetto delle avventure si rivela il prototipo dello stesso individuo borghese il cui concetto ha origine in quella compatta affermazione-di-sé di cui l'eroe pellegrino fornisce il modello preistorico" (p. 11).

Bisogna badare che la sottomissione strictu senso si può esercitare soltanto di fronte ad esseri superiori in qualche aspetto, non in tutti (se ci fosse una superiorità assoluta, non ci sarebbero opportunità di ribaltare i rapporti di forza). Il risultato è l'instabilità intrinseca della situazione.

Ebbene, l'analisi di questa intrinseca ambiguità e delle sue conseguenze è il nocciolo dell'opera dei Francofortesi. Ma per avere il sopravvento in situazioni avverse ci vuole l'astuzia: l'astuzia della ragione, collocata da Hegel in ambito teorico e trapiantata dai Francofortesi in campo pratico. Questa furbizia non è solo collettiva, ma anche individuale. Un esempio ne è nuovamente Ulisse.

Alle volte tale sagacia porta a "fare il morto per non essere ammazzato" —come vuole il proverbio—, cioè ad "adattarsi a qualunque prezzo all'ingiustizia" (p. 97), a mimetizzarsi (per esempio, con la natura: qui trovano il loro luogo i miti arcaici), a servirsi —suprema furbizia— delle forze del nemico per i propri scopi. Questa astuzia dell'illuminismo, della borghesia, ha escogitato lungo la storia diversi sistemi di cui il più recente è il liberalismo.

6.5. La ragione

Andando più in là i filosofi della Scuola di Francoforte scoprono che tale scienza è stata possibile in quanto sorretta da una ragione adeguata: la "ragione strumentale" appunto. Questa qualifica, dedotta dai risultati, ci dice poco della natura della ragione. Senz'altro non equivale a "ragion pratica" cioè ad una applicazione dell'intelligenza a scopi pratici come potrebbe trovarsi in Aristotele e come, a prima vista sembra esserci in Bacone. Neppure e uguale alle regole del bien penser dei cartesiani, cioè ad un uso metodico e corretto della ragione con il fine di migliorare la vita umana e assicurarne la felicità. Gli è simile solo in quanto allo stesso proposito, che si cerca di raggiungere con una ragione concepita diversamente; una ragione riluttante di qualsiasi aggancio fuori di se stessa.

Uno dei primi passi lo compie proprio Bacone, allorché separa l'uso strumentale della ragione dall'intelletto speculativo. In questo modo, sebbene imperfettamente, la rende autonoma. Ma è Kant chi si propone di giustificare teoreticamente siffatta pretesa. In lui, che è con Hegel l'espressione più compiuta dell'illuminismo, si addensano "le ambiguità e le unilateralità entro cui si trova avviluppata la ragione umana nel suo esercizio concreto nel mondo culturale del Settecento"[15].

La prima e decisiva unilateralità consiste in attribuire la primazia tra i problemi filosofici a quello gnoseologico. Questione non originale di Kant, certamente, dacché è caratteristica di tutto il pensiero moderno —Cartesio, Locke, Leibniz, ecc.— e in parte anche dei suoi predecessori —i nominalisti—. Tale decisione —che come tale è un atto volontario, non intellettuale— reca con sé l'indipendenza della ragione. Infatti, il problema gnoseologico dell'uso della ragione si può risolvere soltanto mediante la ragione; ci sono quindi due sole possibilità: a) ammettere che è un circolo vizioso, irresolubile senza aiuto esterno e, per tanto, che il quesito era mal impostato in partenza; b) dichiarare che l'impostazione era corretta e di conseguenza la ragione fondamenta se stessa, cioè è autonoma (si tratta evidentemente di una autonomia nell'ordine dell'agire e non dell'essere).

L'uso pratico aristotelico o il bien penser pascaliano sono pervenuti all'uso critico della ragione kantiana: un uso adeguato che la indipendentizza dalle istanze inferiori (passioni umane e natura fisica) e dalle pari e superiori (altri uomini, Dio). Così trova giustificazione teoretica la parigina dea Ragione e la illuministica riluttanza dai presupposti dogmatici (metafisici, teologici, auctoritas, Tradizione, ecc.).

In definitiva, un uso critico della ragione i cui risultati sono stati acutamente esaminati dai Francofortesi. Dobbiamo prima, però, ricordare come essi hanno inteso la rivoluzione copernicana operata da Kant.

6.5.1. La ragione illuministica: l'illuminismo gnoseologico.

In realtà Horkheimer e Adorno parlano di due tipi di ragione illuministica e perciò d'illuminismo, uno causa dell'altro: gnoseologico e sociale. Il primo livello è stato definito da Kant nei seguenti termini: l'illuminismo è "l'uscita dell'uomo da uno stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. Minorità è l'incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro".[16].

Horkheimer e Adorno interpretano immediatamente che "l'intelletto senza la guida di un altro è l'intelletto guidato dalla ragione" (p. 87). Il ruolo di guida assegnatogli da Kant consiste nel porre "una certa unità collettiva" alle singole conoscenze attinte dall'intelletto. Questa unità collettiva o minisistema è il concetto. Di conseguenza, "la razionalità consiste nell'attuare una connessione sistematica (...). Pensare, nel senso dell'illuminismo, significa produrre un ordine scientifico unitario e dedurre la conoscenza dei fatti da principi; che questi vengano intesi come assiomi posti arbitrariamente, come idee innate o come astrazioni supreme.

Le leggi logiche instaurano i rapporti più generali di quest'ordine; lo definiscono. L'unità risiede nella concordanza. Il principio di contraddizione è il sistema in nuce. Conoscenza è sussumere sotto principi. (...) Ogni pensiero che non tenda al sistema è privo di direzione o [è] autoritario. La ragione non fornisce che l'idea di unità sistematica, gli elementi formali di una salda compagine concettuale" (pp. 87-88).

Siffatta ragione sfocia necessariamente nell'illuminismo inteso come strumentalizzazione e logica del dominio per due motivi: primo, Kant distanziò i due principali elementi conoscitivi —intelletto e ragione— di modo che può affermarsi che in realtà solo conosce (intuisce) l'intelletto; la ragione si limita a sistematizzare le intuizioni intellettuali. Ciò comporta che la sistematizzazione della natura produce un allontanamento dell'oggetto conosciuto, una "estraniazione".

Siamo quindi agli antipodi del concetto classico di conoscenza intesa come assimilazione. Nel sistema Kantiano conoscere (in quanto sistematizzazione) è un certo deformare, un dominare. Così inteso, tale pensiero —e la scienza che ne deriva— sono essenzialmente dominatori[17].

In codesta concezione sorge il problema di che farsene di quelle conoscenze che  rifiutano di essere inquadrate nel sistema (alcuni aspetti particolari, certi fatti, etc.). "L'illuminismo riconosce a priori, come essere ed accadere, solo ciò che si lascia ridurre a unità; il suo ideale è il sistema, da cui si deduce tutto ed ogni cosa. (...) Il postulato baconiano dell'una scientia universalis è —nonostante il pluralismo dei campi d' indagine — altrettanto ostile a ciò che non si può collegare" (p. 15). Posto il problema, le soluzioni possibili sono tre: ignorare l'asistematico, disprezzarlo o ammetterlo e ripensare il sistema.

I Francofortesi vedono giustamente che tale proclività alla uniformazione si realizza massimamente nelle scienze logiche e matematiche; e inoltre, che tali scienze forniscono uno strumento formidabile: il calcolo. Scrivono: "La logica formale è stata la grande scuola dell'unificazione. Essa offriva agli illuministi lo schema della calcolabilità dell'universo. (...) Il numero divenne il canone dell'illuminismo" (p. 15).

Se queste difficoltà affiorano nell'ambito teorico, ancor di più sorgono in quello pratico, data l'essenza eminentemente pratica che per i Francofortesi possiedono la conoscenza e la scienza. E in questo campo sfocia la seconda difficoltà di cui testè si parlava.

Un sistema scientifico —affermano i nostri Autori— è vero se è in armonia con la natura, con i fatti: questi vengono pronosticati in base al sistema e lo devono confermare. Per questo "il sistema a cui l'illuminismo tende è la forma di conoscenza che viene meglio a capo dei fatti, che aiuta più validamente il soggetto a sottomettere la natura. I suoi principi sono quelli dell'autoconservazione" (p. 89). Il risultato è che "L'illuminismo si rapporta alle cose come il dittatore agli uomini: che conosce in quanto è in grado di manipolarli. Lo scenziato conosce le cose in quanto è in grado di farle. Così il loro in-sé diventa per-lui. Nella trasformazione l'essenza delle cose si rivela ogni volta come la stessa: come substrato del dominio. Questa identità fonda e costituisce l'unità della natura" (p. 17). In questa sede il problema di che farsene dell'asistematico diventa vitale.

La realtà che non si soggioga al sistema scientifico può essere ignorata o disprezzata, ma le conseguenze sono ora il crollo del ponte, la rovina delle messi, l'inquinamento, l'aggravarsi del malato, la morte improvvisa (cfr. p. 89). La conclusione è che una ragione che tralascia elementi importanti alla mercé di una decisione previa, è una ragione ideologica, o meglio, un uso ideologico e critico della ragione[18].

6.5.2. La ragione illuministica: l'illuminismo sociale.

Nell'ambito sociale la situazione peggiora. Infatti il pensiero uniformante tollera male le differenze, i singoli che spuntano fuori dal sistema: in una parola, sopporta male la libertà.

Libertà si — direbbero — ma dentro un ordine, un sistema. "Si afferma solo chi si sottomette senza residui. L'emergere del soggetto è pagato col riconoscimento del potere come principio di tutti i rapporti" (p. 17). Come un organismo vivo, anche il sistema tenta di neutralizzarli squalificandoli (sono asociali, anarchici), emarginandoli o distruggendoli[19].

D'altronde il pensiero calcolante si applica (con o senza motivi) a tutti gli aspetti della società. Così "le stesse equazioni dominano la giustizia borghese e lo scambio di merci. «Non è forse la regola che sommando dispari e pari ottieni dispari, un principio della giustizia come della matematica? E non c'è una vera corrispondenza fra giustizia commutativa e distributiva da una parte e proporzioni geometriche e aritmetiche dall'altra?»[20].

La società borghese è dominata dall'equivalente. Essa rende comparabile l'eterogeneo riducendolo a grandezze astratte" (p. 15). E concludono l'analisi di questo aspetto del tessuto sociale: "Tutto ciò che non si risolve in numeri, e in definitiva nell'uno, diventa, per l'illuminismo, apparenza" (p. 15).

I Francofortesi segnalano pure che tali conseguenze si devono additare a Kant: "I concetti di Kant sono equivoci. (...) La ragione rappresenta l'istanza del pensiero calcolante che organizza il mondo ai fini dell'autoconservazione e non conosce altra funzione che non sia quella della preparazione dell'oggetto, da mero contenuto sensibile, a materiale di sfruttamento. La vera natura dello schematismo [kantiano] che accorda dall'esterno universale e particolare, concetto e caso singolo, si rivela da ultimo, nella scienza odierna, come l'interesse della società industriale. L'essere è visto sotto l'aspetto della manipolazione e dell'amministrazione" (pp. 89-90).

Molti brani degli scritti dei Francofortesi costituiscono un canto al singolo ed una denunzia del suo annientamento da parte della società occidentale: "Il rapporto della scienza in generale alla natura e all'uomo non è diverso da quello della scienza specifica delle assicurazioni verso la vita e la morte. Non importa chi muore; importa il rapporto dei casi agli obblighi della compagnia. E' la legge dei grandi numeri, e non il caso singolo, che ritorna nella formula" (p. 90). Il suo rammarico esplode in questa frase lapidaria, quasi tombale: "Ma la terra interamente illuminata splende all'insegna di trionfale sventura" (p. 11).

Kant, oltre ad aver identificato la ragione come supremo modo di conoscere, identifica il sistema scientifico con la suprema conoscenza, con la verità. Diventa così un autentico illuminista, giacché "l'illuminismo è la filosofia che equipara la verità al sistema scientifico" (p. 99). Ma il progetto kantiano di soppiantare la filosofia con la scienza è aberrante —affermano i nostri Autori—, perché gli manca la condizione fondamentale del sapere supremo: quella di poter indagare su se stessa, di non aver bisogno d'altro più in alto. "L'idea di una scienza che comprende sé stessa contraddice al concetto stesso di scienza.(...) Con la sanzione —ottenuta come risultato da Kant — del sistema scientifico a forma della verità, il pensiero suggella la propria inutilità, poiché la scienza è esercitazione tecnica, aliena dal riflettere sui propri fini" (p. 91); e questo tentativo "condusse a concetti che non hanno scientificamente alcun senso' (p. 91). La preminenza di cui gli aspetti razionalistici godono nella società illuministica non comporta la scomparsa di quelli affettivi e morali. Semmai arreca una razionalizzazione di entrambi. Da una parte si cerca di quantificare — calcolando e misurando — emozioni, sentimenti e fantasia. Dall'altra parte l'astuzia del borghese si sublima nel servirsi delle qualità altrui.

E' capace di manipolare non solo le cose, ma pure gli uomini, le loro qualità, i loro sentimenti (nobili o ignobili). Sa utilizzare l'egoismo, l'interesse, il piacere, la paura. E, affinché gli individui non si ribellino escogita diversi metodi, tra i quali la religione e la morale.

Il secondo Excursus della DI è la descrizione dell'illuminismo sotto questo aspetto: "Le dottrine morali dell'illuminismo testimoniano uno sforzo disperato per trovare, al posto della religione indebolita, una ragione intellettuale per durare nella società anche quando vien meno l'interesse" (p. 91).

L'impegno del borghese perché le masse applichino quelle regole, quando lui stesso se ne sente al di sopra, non è se non un modo subdolo di esercitare il potere. Neanche in questo campo i Francofortesi risparmiano a Kant le loro frecciate: "Il tentativo suo [di Kant] di dedurre il dovere del rispetto reciproco da una legge della ragione, non ha alcun sostegno nella critica. E' il solito tentativo del pensiero borghese di fondare il riguardo, senza il quale non si darebbe civiltà, su tutto ciò che non sia l'interesse materiale e la violenza: sublime e paradossale come nessun altro in precedenza, ed effimero come tutti. (...) Alla base dell'ottimismo kantiano per cui l'agire morale sarebbe razionale anche là dove quello immorale ha buone probabilità di successo, è l'orrore di fronte al pericolo di una ricaduta nella barbarie" (p. 91).

Horkheimer e Adorno scoprono le carte di Kant: questi è consapevole che nel suo sistema la morale è indeducibile (cfr. p. 91); ma allo stesso tempo è conveniente che esista, per la quiete e l'ordine della società. Evidentemente dev'essere un ordine che serva agli interessi dei dominatori. Ma, dove si trova maggior ordine che in un sistema totalitario? Di modo che "l'ordine totalitario ha realizzato tutto questo [le teorie kantiane] alla lettera" (p. 92).

Ma prima che i totalitarismi lo avessero realizzato, uno solo lo aveva previsto fino in fondo e in tutti i dettagli nei suoi scritti: "L'opera del Marchese di Sade mostra «l'intelletto senza la guida di un altro », cioè il soggetto borghese liberato dalla tutela" (p. 92). Così come l'Ulisse omerico era il paradigma dell'astuzia dell'illuminato borghese, i personaggi del Marchese di Sade sono i paradigmi della morale della borghesia.

Anche qui contano poco i fini. Forse l'unica meta riscontrabile è l'agire per l'agire, l'esercitare tutte le facoltà, tutte le possibilità, il dominarle; in realtà neanche il piacere può qualificarsi come il movente delle azioni dei personaggi sadici. In questo modo si approda al paradosso di un liberalismo morale ed economico (preludiato dai liberi pensatori settecenteschi) all'interno di ferrei sistemi politici ... e morali: Guai a chi non sia liberale, tollerante, ecc.! In un tale sistema borghese la ragione "è diventata «finalità senza scopo» che, appunto perciò, si può adoperare a tutti gli scopi" (p. 94).

Di una società in cui la stessa "attività conta più del suo contenuto" (p. 94), può affermarsi senza indugi che "ha definitivamente funzionalizzato la ragione" (p. 94). E "poiché la ragione non pone fini oggettivi, tutti gli affetti sono ugualmente distanti da essa. Essi sono puramente naturali" (p. 95).  Cadono così per terra le norme morali oggettive[21]. Horkheimer e Adorno citano le seguenti parole di Sade: "Il governo deve regolare da sé la popolazione e deve avere in mano tutti i mezzi per distruggerla, se ha ragione di temerla, o per accrescerla, se lo ritiene necessario; e non può esservi altro equilibrio della sua giustizia che quello dei suoi interessi o delle sue passioni" (pp. 94-95). Parole che sembrano un atteggiamento ante litteram riguardo al controllo della natalità: si forniscono i mezzi anticoncezionali e abortivi e si ricompensa per il terzo figlio.

La critica che i Francofortesi rivolgono contro Kant stritola questa notissima affermazione kantiana: "Ciò che ha un prezzo può essere sostituito da qualche altra cosa equivalente; ciò, all'opposto, che è superiore ad ogni prezzo, e in conseguenza, ciò che non permette nessuna equivalenza, ha una dignità"[22].

In fondo —dicono— il sistema kantiano frantuma la dignità umana. E la Scuola ha sempre preso posizioni in favore della nobiltà di ogni uomo. Il problema è sapere qual'è in concreto il concetto di uomo che posseggono i suddetti Autori.

B. CRÍTICA

7. Il concetto di uomo nei Francofortesi

La descrizione delle disavventure della specie umana costituisce una ampia parte dell'opera di questi filosofi: la vita umana strumentalizzata e disprezzata, sottomessa alla logica dell'utile e della fungibilità universale è dipinta in mille modi diversi. Ebbene, quanto finora abbiamo esposto è più che sufficiente per giustificare ciò che si è affermato all'inizio: la Scuola ha denunciato senza lenitivi i sintomi, ha innescato una riflessione e ha proposto pure una diagnosi; ma non ha sviluppato una terapia. Diagnosi e assenza di terapia che sono risultato di una certa concezione del malato, dell'uomo e della sua dignità, cioè dei suoi valori. Ed è in questo punto dove dobbiamo ora soffermarci per indicare le insufficenze e quindi i limiti dell'opera dei Francofortesi.

7.1. Il pensiero calcolante

L'elenco delle nefaste conseguenze del pensiero calcolante e l'esposizione delle sue origini baconiane e kantiane sono stati lucidi. Ma non hanno saputo denunciare che questa insoddisfacente teoria gnoseologica inquina l'intero progetto illuminista fin dall'inizio, "proprio per il fatto che la ragione, svuotata di saggezza di vita e di respiro metafisico-religioso, è diventata unicamente arma polemica e strumento di battaglia. Nessuna meraviglia, quindi, per le implicanze iconoclastiche che si possono trovare all'interno del marxismo, della psicoanalisi freudiana o del neopositivismo logico, nella misura in cui queste proposte restano debitrici dell'uso «illuministico » della ragione"[23]. L'uso appunto di una ragione strumentale, "strabica e presuntuosa"[24].

7.1.1. Natura della conoscenza

Bacone e Kant, innalzando le scienze medie o fattive al ruolo di modello dell'autentica conoscenza, hanno avviato questa per un binario morto, come ben hanno provato i nostri Autori. E' la via della kinesis, dell'atto transeunte. Ma restava libero l'altro binario, quello della praxis, dell'atto immanente. Precisamente la vera conoscenza viaggia per questa via.

L'atto immanente possiede diverse caratteristiche:

        a) il suo "prodotto" non è esterno, bensì rimane nel soggetto; quindi accresce la sua perfezione, il suo valore o dignità. Altrettanto vale per la morale: l'aspetto principale è l'aumento o diminuzione del valore del soggetto (la bontà in questo caso). Solo in questo modo possiamo misurare l'uomo per quanto egli è, non per quanto "serve" o è utile. Soltanto così si avvera l'affermazione kantiana che l'uomo è un fine (un valore) in sé stesso, non un mezzo (uno strumento);

        b) la sua natura è farsi uno intenzionalmente con la cosa conosciuta. Quindi attirarla, non allontanarla; assomigliare ad essa, non alienarla. Rispettarla o, in altri termini, contemplarla. Radica qui il fondamento ontologico dell'anelato rispetto kantiano. Altrettanto vale per la morale: l'atto di amare è essenzialmente un rispetto, un unirsi con l'amato (non già intenzionalmente bensì realmente —ma non materialmente —).

I Francofortesi hanno portato alla luce il disprezzo per la contemplazione presente nella mentalità illuministica; ma purtroppo non hanno auspicato il ritorno ad essa.

7.1.2. Matematica e astrazione

Il pensiero calcolante è proprio del calcolo e la geometria, delle scienze matematiche. E bisogna non dimenticare che possiedono un metodo proprio: l'abstractio per modum partis. Per sua natura siffatta astrazione prescinde dagli oggetti in cui si trova realizzata in rerum natura; e quindi non è falsa quando lascia da parte i singoli, gli individui.

Dobbiamo dare retta ai Francofortesi allorché ribattono che gli esseri umani non devono venir trattati come numeri, come gregge. Ma essi non hanno compreso che per arrivare a tale risultato ci vuole il metodo opportuno, e che l'astrazione per modum partis non lo è. Adempie invece tale caratteristica l'abstractio per modum totius[25]. Questa astrazione infatti genera un universale (e quindi permette la scienza), ma non come stadio definitivo e completo, bensì provvisorio ed incompleto: per sua natura è ordinata al singolare —mediante la conversio ad phantasmata—. Unicamente una scienza fondata su questo metodo —sia la filosofia, la sociologia, la politica, la fisica, ecc.— è incapace di dimenticare o deformare il singolo. L'universalità — sia del concetto, sia del sistema— sta al servizio del singolo e quindi non è nata per dominarlo o distruggerlo.

Questi due approcci conoscitivi danno luogo a due grandi divisioni delle scienze: speculative da una parte, e medie e pratiche dall'altra.

I Francofortesi hanno riscoperto che la salvezza viene da una conoscenza correttamente impostata. Per cui alla fine sono approdati alla conoscenza sovrumana propria della religione o alla conoscenza artistica. In onor di verità si deve dire che vi arrivano più come ultimo rifugio che come proposta positiva. D'altronde non sembrano accorgersi del fatto che anche l'arte appartiene alla sfera pratica e quindi è naturalmente soggetto alla strumentalizzazione (l'art engagée). Ma non si sono resi conto che occorreva spezzare la fobia antimetafisica del filosofo di Könisberg. In fondo non hanno rilevato che la dottrina kantiana prendeva spunto da una errata concezione dell'uomo, e che le sue conclusioni —cioè valori come uguaglianza, libertà, tolleranza, pace, diritti umani, filantropia— erano mal fondati. Ed era difficile per i Francofortesi rilevarlo giacché non avevano da opporre una propria concezione. In parte gli mancava in virtù del loro storicismo: l'essere umano in quanto storico è in continuo sviluppo; non si può dunque pretendere di concepire una essenza chiusa, statica.

Come si vede l'errore sta nell'equiparare l'essenza completa, definita, ad un'essenza statica; ma è un errore comprensibile dato l'orrore che provano verso i sistemi onnicomprensivi. Contemporaneamente ci si accorge che, con il loro storicismo accettano il presupposto illuministico del progresso, benché in chiave pessimistica[26]. Pessimismo e storicismo che conducono questi Autori a non azzardare una terapia, bensì a restare nell' atteggiamento di critica permanente. Una critica però valida soltanto per i sistemi razionalistici e idealistici, dove si pretende prima inquadrare tutto nello stampo del sistema e dopo, identificare reale e razionale. Una critica, pertanto, antiidealistica complementare a quella attuata dagli esistenzialisti.

Con un tale atteggiamento i Francofortesi possono inciampare in due pericoli: il problematicismo e lo scetticismo da una parte, e l'alimentare teoricamente il ribaltamento di una società di cui si approfittano[27].

Infine, i filosofi della Scuola criticano il metodo del pensiero calcolante e gridano che il loro oggetto non deve essere sottomesso: la giustizia, il piacere, l'uomo stesso come materia di scambio merci. Ma non hanno spiegato perché non deve succedere in quel dato modo. Non proclamano che il valore di ogni individuo è incalcolabile, e superiore a qualsiasi prezzo. Si sono dimenticati che tra l'essere umano e la natura c'e una differenza di qualità e non solo di quantità: una differenza abissale. E questo plus, questa sua grandezza, non è altro che la sua spiritualità —ivi compresa la capacità di trascendenza—.

7.2. L'istinto di conservazione

Una idea insufficiente sulla natura dell'uomo sfocia in un'altrettanto insoddisfacente concezione sul movente e l'origine della società. E' vera l'assolutezza dell'istinto di conservazione o egoismo (termini macchiati di teriomorfismo e antropomorfismo rispettivamente[28]; ma lo è riguardo a tutto l'essere dei singoli, alla persona integrale. Di modo che se l'uomo è materia e spirito, un egoismo correttamente inteso porterà a perdere la vita corporale per salvare l'anima; a perderla per salvare la vita altrui; ad integrarsi in un essere superiore —amandolo— perché questo essere perfeziona il proprio.

Parallelamente, l'essere di un animale, minerale o pianta si conserva sublimandosi nel perire in favore della specie o degli enti superiori (principio che dovrebbe illuminare di più la moderna ecologia).

I pensatori della Scuola seppero scoprire e denunciare coraggiosamente la triste verità dei misfatti degli uomini, della scienza e della tecnica. Ma la mezza verità è la bugia peggiore: il loro pensiero è falso nella misura in cui non hanno parlato degli aspetti positivi dell'uomo, della scienza e della tecnica[29], dell'eroismo dei singoli e delle istituzioni (alcune religioni, ad esempio), che non mancarono nemmeno in mezzo agli orrori della guerra mondiale. Ad altri è servito viceversa a scoprire la natura spirituale e rivolta al trascendente che è propria dell'uomo, la sua capacità di raffinarla nonostante le avvilenti circostanze esteriori, così come l'oro esce purificato dal crogiolo. Basti ricordare le esperienze di V. Frankl (Uno psicologo nel lager), A. Solienysyn e A. Valladares (Contra toda speranza. Veinticinco años en las cárceles de Castro). E ad altri ancora è servito a constatare la liberta dell'uomo: nella Storia della colonna infame —storie di eroismi e vigliaccherie di A. Manzoni—, "si deve rendere omaggio all'esigenza ch'egli rappresentò: di garantire cioè la responsabilità umana e di ben ribadire il principio cristiano (e profondamente speculativo) dell'origine passionale ossia pratica dell'errore" (B. Croce).

E' questa la spietata disamina di un processo spietato, molto più profonda che quella svolta dai Francofortesi. Forse per invincibile ignoranza? Non sembra, in quanto hanno lasciato scritto ad esempio il loro stupore per l'atteggiamento di Cristo, il quale sfidò il dominio degli illuministi suoi contemporanei. Ma non indagarono oltre, non scoprirono tanti altri casi simili, non accertarono i motivi di tale agire. Può dirsi insomma che hanno guardato l'arazzo con acutezza, ma dalla parte posteriore.

La critica che i Francofortesi volgevano alla psicologia empirica aveva assodato che una schietta sociologia non può essere neutrale rispetto alla concezione dell'uomo e della società. Si pensi quindi al valore che acquistano le ricerche sociologiche della Scuola basandosi su una concezione che esitano a dare.

Ma siccome di qualcuna hanno pur bisogno, al meno per cominciare i loro studi, i filosofi della Scuola si fanno altamente debitori di Marx e Freud. E' vero che criticarono aspetti centrali dell'umanesimo marxiano, e spostarono la radice dei mali dalle sovrastrutture marxiane all'individuo borghese (benché alla fine non si discostino tanto da Marx: si pensi a categorie sopraindividuali come scienza, borghesia, ecc.); ma è pur vero che accettarono pienamente Freud. Per cui il debito verso questi due autori resta sempre molto elevato[30].

D'altronde bisogna dire che insistendo sul carattere intrinsecamente autodistruttivo del progresso e schiettamente strumentale della scienza, avrebbero dovuto indicare che quest'ultima si poteva usare anche a favore dell'umanità (come oggi tutti riconoscono); e di lì elevarsi alla natura dell'uomo che adopera codesto strumento ed è il solo responsabile dell'impiego che ne fa. In questa ambivalenza sta la sua miseria e la sua grandezza.

 Timshell! Questa parola ebraica, che forma parte del discorso che Yavhé rivolge a Caino prima del fratricidio, significa "Tu puoi!". "Tu puoi e devi avere la signoria sopra il peccato". Questa parola implica una scelta, implica la libertà. "Potrebbe essere la parola più importante del mondo." —scrive J. Steinbeck nel capitolo XXIV de La valle dell'Eden— "Significa che la via è aperta. Rimette tutto all'uomo. Perché se 'tu puoi avere', è anche vero che 'tu puoi non avere'. (...) Può scegliere la sua strada, percorrerla lottando, e vincere".

E questo letterato finisce l'apologia con un appassionato cantico all'essere umano: "Sento che un uomo è una cosa importantissima, forse più di una stella. (...) C'è in me un nuovo amore per quel fulgido strumento che è l'anima umana. E' una cosa splendida e unica nell'universo. E' sempre assalita e mai distrutta perché 'Tu puoi!'"

I Francofortesi hanno denunciato vigorosamente l'uso di mezzi senza fini. Mancano, però, indicazioni precise sui fini dell'uomo e degli altri enti. Unicamente così si potrebbe stabilire quando l'agire si discosti dalla strada che porta al vero perfezionamento e, di conseguenza, quando l'azione resti in balìa della strumentalizzazione.

Riassumendo, i filosofi della Scuola di Francoforte hanno criticato coraggiosamente e validamente i difetti della società e di un certo uso della ragione idealistica, ma sono deludenti nelle loro proposte alternative.

C. BIBLIOGRAFÍA

HORKHEIMER, M., ADORNO, TH., Dialettica dell'illuminismo, trad. ital. di Renato Solmi, Einaudi Paperbacks n 117, Torino 1980, 281 pp.

La stessa editoriale ha stampato precedentemente la medesima opera nella Biblioteca di cultura filosofica (1966(13) e 1971(33)) e nei Reprints (1974(13) e 1976(23)), ma tradotta da L. Vinci. Questa è utilizzata da GALEAZZI ed altri nei suoi studi. Le pagine ovviamente non corrispondono.

GALEAZZI, U., La Scuola di Francoforte, Città Nuova, Roma 1978, 322 pp.

La seconda parte di questo libro (170 pp.) è una antologia di testi; la prima è un saggio (150 pp.). Si tratta di una buona esposizione del pensiero dei componenti della Scuola, che mette in rilievo i loro aspetti positivi, ma sfuma la critica sugli aspetti negativi.

CIRILLO, A., Adorno-Horkheimer: Lezioni di sociologia, Japadre, L'Aquila 1980, 118 pp.

E' uno studio dell'opera indicata, che tiene presenti i restanti lavori. Risulta così un saggio pregevole, innanzi tutto per la chiarezza di esposizione e la preoccupazioneà di evidenziare i principi da cui muove la riflessione dei Francofortesi. A nostro parere la critica che lì viene rivolta oscura i pregi degli autori esaminati, che non sono posti sufficientemente in rilievo.

OPERE NON ESAMINATE

Per uno studio più approfondito sarebbe necessario consultare altri lavori, tra cui possono annoverarsi:

HABERMAS, J., La crisis del 'Estado de Bienestar' y el agotamiento de las energías utópicas"; prolusione tenuta recentemente a Madrid, in spagnolo, dove si afferma che la tecnica è ambivalente, ma che di fatto gli effetti perversi sono prevalenti.

HABERMAS, J.: altre opere, specialmente le ultime.

DAWSON, CH. : diverse opere. Interessante perché mostra l'origine cristiana dell'idea illuministica di progresso. Un articolo biografico è apparso recentemente su Studi Cattolici.

 

                                                                                                                   J.V. (1988)

 

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[1] Basti ricordare: Studi su Autorità e Famiglia, Studi sul pregiudizio e Lezioni di sociologia.

[2] Come ben afferma Galeazzi: "il debito comune è nei confronti dell'hegelo-marxismo occidentale, polemico contro il positivismo scientistico di marca engelsiana, difeso invece dal potere sovietico". (in GALEAZZI U., La Scuola di Francoforte, Città Nuova, Roma 1978, p. 11).

[3] Cfr. l'intervista a HORKHEIMER pubblicata nel 1970 sotto il titolo La nostalgia del totalmente Altro.

[4] Premessa all'ultima edizione tedesca (1969), in Dialettica dell' illuminismo, trad. ital. d Renato Solmi, Einaudi Paperbacks n 117, Torino 1980, 281 pp.; p.VII. D'ora in poi lo citeremo con le sigle DI o semplicemente con la pagina.

 La stessa editoriale aveva stampato anteriormente la medesima opera nella Biblioteca di cultura filosofica (1966(1a) e 1971(3a)) e nei Reprints (1974(1a) e 1976(2a)), ma tradotta da L. Vinci. Questa è utilizzata da GALEAZZI ed altri nei suoi studi. Le pagine ovviamente non corrispondono.

[5] Adorno scrisse tre anni prima di morire, la sua Dialettica negativa (1966). Nella Scuola gli studi su Hegel abbondano: L'ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità (1932), Ragione e rivoluzione. Hegel e il sorgere della teoria sociale  (1954), di Marcuse; Tre studi su Hegel (1963), di Adorno.

[6] E. Fromm ha illustrato in alcuni dei suoi lavori questa espressiva sentenza di Horkheimer: "Oggi la macchina ha buttato per terra il conducente".

[7] Come è noto, si tratta di una fra le tante particolari interpretazioni del fenomeno illuministico.

[8] MICCOLI, P., Alle radici dell'illuminismo, nella "Terza pagina" del L'Osservatore Romano, 28-XI-1987 (I), 5-XII-1987 (II) e 14-I-1988 (III); II, col.1.

[9] La lettura dell' Excursus II (Juliette) e soprattutto del II (Odisseo) illustrano bene quanto stiamo dicendo.

[10] L'espressione compare ad esempio nel saggio Egoismo e movimento di libertà (1936) ed è vicinissimo al "proprio interesse" del Vico. Con la differenza, però, che per i Francofortesi è l'unica causa, mentre per il giurista napoletano è causa secondaria rispetto alla divina Provvidenza.

[11] "La tecnica è l'essenza di questo sapere" (p. 12).

[12] La riflessione della DI prende spunto dalle affermazioni baconiane. E concludono Horkheimer e Adorno: "Bacone ha saputo cogliere esattamente l'animus della scienza successiva" (p. 12).

[13] E' quanto espresse Weber mediante la sua "non valutabilità" della scienza.

[14] Horkheimer pubblicò nel 1967 una raccolta di saggi (fra i quali L'ecclissi della Ragione, del 1947) sotto il titolo Critica della Ragione strumentale.

[15] MICCOLI, P., I, col.2.

[16] KANT, I., Scritti politici e di filosofia del diritto,  trad. it. di Gioele Solari, Torino 1956, p. 141; en DI, p. 87.

[17] Più avanti avremo occasione di capire le ragioni per cui la conoscenza kantiana deforma il singolo.

[18] Gli esistenzialisti — per es. gli spagnoli Unamuno e Ortega — hanno qualificato questa ragione che dimentica la vita, la realtà e quindi la verità come una "ragione senza verità"; e, possiamo aggiungere noi, una "ragione con ragioni che però non ha ragione".

[19] La tolleranza dei rivoluzionari francesi o del rousseauniano "Chi non voglia essere libero lo costringeremo a esserlo" non è tanto dissimile a quella odierna.

[20] BACONE, R., Scritti filosofici, Utet, Torino 1975, p. 221.

[21] I componenti della Scuola davanti all'odierno allargarsi dell'AIDS, avrebbero osservato che il dominio della ragione sulla natura oggettiva e sentimentale umana si è pure rivelato autodistruttivo.

[22] KANT, I., Fondazione della metafisica dei costumi, Utet, Torino 1963, p. 94.

[23] MICCOLI, P., I, col.1.

[24] Ibidem, col. 4.

[25] Si veda al riguardo in Boetii, De Trinitate, q.5 e i testi paralleli.

[26] Pure la vichiana filosofia della storia ha i suoi tratti pessimistici, ma che riguardano solo la natura umana caduta. Il ricorso a una con-causa Trascendente e Provvedente lo trasforma in uno storicismo ottimistico, a lieto fine.

[27] Quest'ultima è l'accusa che i sessantottini rivolgevano ai loro maestri; e nella loro delusione e rabbia gli applicarono i qualificativi più infamanti: l'essere dei "professoroni", dei borghesi.

[28] I Francofortesi attingono questo concetto attraverso la lettura del marxista ungherese. Ma "oggi appare falso il giudizio di Lukács che vede nell'intellettuale illuminista un teorizzatore dell'egoismo borghese. Tale intellettuale era piuttosto un rivoluzionario e un innovatore che non si arrestava di fronte a soluzioni di compromesso" (MICCOLI, P., II, col.1).

[29] La seconda generazione della Scuola, critica precisamente la parzialità delle analisi della prima generazione.

[30] Un compendio di questi argomenti, con intenzione divulgati va, lo costituiscono le Lezioni di Sociologia, del 1956. Un esame particolare di questo lavoro è stato realizzato da CIRILLO, A., Adorno-Horkheimer: Lezioni di sociologia, Japadre, L'Aquila 1980, 118 pp.