MESSNER, Reinhard

Die Meßreform Martin Luthers und die Eucharistie der Alten Kirche. Ein Beitrag zu einer systematischen Liturgiewissenschaft (Innsbrucker theologische Studien; Bd. 25)

Tyrolia Verlag, Innsbruck 1989, 240 pp.

 

1. Il presente libro corrisponde alla tesi di laurea dell’autore, approvata nel 1987 dall’Institut für Liturgiewissenschaft, christliche Kunst und Hymnnologie dell’Università di Graz. Il relatore fu il Prof. Philipp Harnoncourt; il correlatore il Prof. J.B. Bauer. Il lavoro ottenne il “Karl-Rahner-Preis” per la ricerca teologica dell’anno 1989, il che permise la pubblicazione nella collana “Innsbrucker theologische Studien”.

2. La dissertazione cerca di stabilire un confronto fra la liturgia della Cena in M. Lutero e la concezione dell’Eucaristia della Chiesa Antica. L’autore conclude che la riforma della Messa di Lutero, nonostante la sua critica massiva e radicale al sacrificio della Messa, rispetta le categorie della liturgia eucaristica della Chiesa Antica (soprattutto la struttura anamnesi-epiclesi); su questa base ritiene possibile il riconoscimento da parte della Chiesa Cattolica della validità dell’Eucaristia celebrata dalla Chiesa luterana, e la “communicatio in sacris” fra queste Chiese (cfr. p. 223, § 2).

3. Lungo il lavoro l’autore formula alcune tesi che sono in disaccordo con l’insegnamento della Chiesa su punti importanti, come la necessità del sacerdozio ministeriale nella celebrazione dell’Eucaristia; l’efficacia delle parole del Signore (che il sacerdote celebrante pronuncia in persona Christi) nel momento della consacrazione; il modo in cui la Chiesa partecipa al sacrificio di Cristo (offre ed è offerta in Cristo); l’origine dell’Eucaristia che la Chiesa celebra (del suo contenuto sacrificale) nel Cristo storico.

3.1 La sua posizione sul ruolo e la necessità del sacerdozio ministeriale nella celebrazione dell’Eucaristia è in chiaro contrasto con la dottrina della Chiesa esposta nella Lettera della CDF, Sacerdotium ministeriale (6 agosto 1983), documento che non viene mai citato.

3.1.1 Egli ritiene che l’insegnamento del Concilio Vaticano II (UR 22; LG 10) sul ruolo del sacerdozio ministeriale nella celebrazione dell’Eucaristia sia da rivedere (cfr. pp. 222-223). Non accetta la dottrina del Concilio di Trento sulla consacrazione sacerdotale degli Apostoli da parte di Cristo nell’ultima Cena (cfr. p. 16, nota 27 righe 4-7, dove fa riferimento al can. 2, sess. XXII, Doctr. De ss. Missae sacrificio: DS 1752); sulla stessa linea, contesta un’omelia di Giovanni Paolo II (pronunciata nella Messa crismale del Giovedì Santo, 12 aprile 1979), in cui affermò che Cristo nell’ultima cena, celebrando la prima Eucaristia, quando pronunciò le parole: Fate questo in memoria di me, istituì il sacramento del sacerdozio (cfr. p. 16, nota 27, righe 7-12).Critica anche la risposta cattolica al BEM (Documento di Lima), elaborata dal Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani (si riferisce al testo della parte C [sul Ministero], n. 2, § 4: cfr. EV 10,2028) (cfr. pp. 222, in fine- p. 223).

3.1.2 Secondo l’autore nelle testimonianze della liturgia della Chiesa Antica (egli tiene sempre come punto di riferimento principale, se non unico, questi testi) non appare che 1’Eucaristia debba essere presieduta da un ministro ordinato, che rappresenti sacramentalmente Cristo, e che in virtù del sacramento dell’Ordine sia il solo abilitato a compiere il sacrificio eucaristico in persona Christi.

Per lui non c’è differenza essenziale tra il sacerdozio comune e il sacerdozio ministeriale nel compimento dell’Eucaristia. La realtà dell’ufficio che permette la consacrazione eucaristica viene costituita nella stessa celebrazione dell’Eucaristia da parte di tutta la comunità cristiana, che esercita il sacerdozio comune ricevuto nel battesimo:

“Nun haben wir aber im liturgischen Zeugnis der Alten Kirche (auch des römischen Kanons!) eine Zuordnung von Amt und Eucharistie im Sinne von Voraussetzung und Folge nicht gefunden. Die Aussagen der Eucharistiegebete lassen keineswegs erkennen, daß zum Vollzug der Eucharistie als Verwirklichung von Kirche eine unabhängig von der Eucharistie (vor)gegebene “postestas ordinis” existieren muß. Wir haben nirgendwo die Auffassung gesehen, daß der Eucharistiefeier deshalb ein ordinierter Amtsträger vorstehen muß, weil er und nur er sakramental Christus repräsentiert. Vielmehr stellt sich die Kirche (als eine konkrete Ortskirche) in der Eucharistie als ihrem zentralen Vollzug in ihrer auch durch das kirchliche Amt mitbestimmten Strukturiertheit dar. Die Wirklichkeit des Amtes wird durch den Vollzug der Eucharistie in amtlicher Stellung mitkonstituiert; die Eucharistie ist nicht bloß eine Anwendung einer schon zuvor einfach vorhandenen “Gewalt” oder “Befähigung”. Diese Zuordnung von Amt und Eucharistie find wir nun, wenn ich richtig sehe, auch bei Luther: Nur der ordinierte Amtsträger als der (von Gott) für die öffentliche Verkündigung des Evangeliums und die Verwaltung der Sakramente Beauftragte darf der Eucharistiefeier vorstehen.

Und in ihr vollzieht er sein Amt, durch diesen Vollzug wird es mitkonstituiert. Gerade in der leidigen Amtsfrage erweist sich der Rekurs auf die liturgische Überlieferung der Kirche als Korrektiv der durch ihren Sitz im Leben oft einseitigen lehramtlichen Aussagen als hilfreich” (p. 223).

3.1.3 Sembra che l’autore, chiuso nel suo ambito di ricerca, abbia compiuto un grosso errore di metodo, staccando i testi delle preghiere eucaristiche antiche dal loro contesto nella tradizione viva della Chiesa, e assolutizzando alcune delle loro espressioni (memores...offerimus) (cfr. p. 46, § 2).

Se avesse letto i testi dei Padri contemporanei alla composizione di tali preghiere si sarebbe reso conto che la Chiesa che celebra 1’Eucaristia è sempre gerarchicamente strutturata (presenza del vescovo, dei presbiteri, dei diaconi, di altri ministri e dei fedeli). Riferimenti ai ministri ordinati si trovano, per esempio, in: Sant’Ignazio di Antiochia, Ep. Ad Smyrn. 8, 1; Sant’Ippolito, Traditio Apostolica: Solano I, nn. 170, 173-174, San Cipriano, Ep. 63, 14; San Giovanni Crisostomo, In proditionem Iudae hom. 1; ID., In 2 Tim. hom. 2,4; Teodoro di Mopsuestia, Hom. Cat. 15, 19-20; Sant’Ambrogio, De sacramentis 4,4, 14-15; ID., In Ps 38,25; ecc.

3.2 La sua interpretazione delle Preghiere Eucaristiche della Chiesa Antica è molto problematica; risulta più consona con le interpretazioni luterane e ortodosse, che con la dottrina cattolica insegnata dal Magistero: a) non sembra accettare il ruolo determinante della parole di Gesù (pronunciate dal ministro ordinato “in persona Christi”) nella consacrazione dell’Eucaristia, identificando il momento della conversione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo con l’epiclesi post-anamnetica; b) sostiene che la Chiesa celebrante in nessun modo offre al Padre “il Corpo e il Sangue di Cristo” (o il sacrificio del Figlio), come potrebbe intendersi –afferma l’autore – seguendo l’interpretazione medievale della Messa (su questa linea propone la correzione delle preghiere che lo affermano, per esempio le preghiere eucaristiche III e IV del nuovo Messale romano: cfr. p. 210, § 2-p. 211, righe l-9 e 22-29); secondo lui dopo il racconto della istituzione la comunità offre semplicemente “il pane e il vino”, segni del sacrificio spirituale che i credenti desiderano presentare al Padre, imitando il sacrificio di Cristo e offrendo, come lui, la loro vita al Padre; queste disposizioni sono premesse necessarie affinché nel momento della epiclesi (di trasformazione e di comunione), i fedeli siano incorporati all’evento salvifico del sacrificio di Cristo, attualizzato nella comunità grazie al compimento del “memoriale”. In seguito cercherò di presentare i testi dove appaiono le idee appena esposte.

3.2.1 L’autore interpreta l’offerta che si trova nell’anamnesi della preghiera eucaristica d’Ippolito: “Wir bringen dar... dieses Brot und diesen Kelch” (dopo le parole dell’istituzione o consacrazione), soltanto come l’offerta da parte della Chiesa dei doni naturali del pane e del vino, segno della donazione sacrificale della comunità:

“Der Tatvollzug wird mit dem Wort “offerimus” bezeichnet, ist also eine Darbringung. Das Objekt dieser Darbringung ist nun nicht etwa Leib und Blut Christi - eine solche Konzeption würde den liturgischen Vollzug und die göttliche Realität vermischen -, sondern Brot und Wein, die natürlichen Gaben, durch die wir dann später - nach ihrer “Konsekration” –Anteil an Leib und Blut Christi erhalten [ammette l’impanazione?]” (p. 35, § 3, righe 10-15).

La stessa idea appare nella nota 64 (sempre a p. 35), dove rifiuta l’interpretazione di B. Schultze –che invece parla di offerta del corpo e del sangue di Cristo-, sostenendo: “Diese Ausführungen Schultzes sind ein exemplarischer Fall, wie dogmatische Vorurteile historische Betrachtungen beeinflussen können”.

Una interpretazione simile a quella data per l’anafora d’Ippolito si trova nel commento delle anafore orientali (cfr. p. 63, §§ 2-3; p. 65, § 2; p. 82, § 2, righe 18- 25); o a proposito del Canone romano (cfr. p. 86, § 3-p. 87, §§ l-2; p. 102, § 2, righe 7-15; p. 104, §2, e nota 90). Egli arriva a dire: “Daß die Kirche Leib und Blut Christi darbringt, ist ein der liturgische Tradition fremder Gedanke” (p. 65, §2, righe 22-23); per lui tale affermazione comporterebbe, tra l’altro, mescolare indebitamente le realtà divine con quelle umane, identificando falsamente Cristo e la Chiesa (cfr. p. 65, § 2; p. 94, § 1; p. 95, § 1; p. 103, § 1, righe 10-17; p. 108, § 1, righe 11-15; p. 110, § 2; p. 173, § 2; p. 177, § 2 e nota 237). Si vedano anche le critiche che su questo tema rivolge ai documenti del Concilio Vaticano II (SC 47-48), e alla IGMR (n. 2): cfr. p. 209, § 4-p. 210, § 1; come pure alle nuove preghiere eucaristiche del Messale romano (cfr. p. 210, § 2; p. 211, righe l-9 e 22-29).

3.2.2 Secondo l’autore dopo il racconto dell’istituzione e l’anamnesi del mistero pasquale del Signore, la comunità offre pane e vino; questa offerta non costituisce un sacrificio di doni naturali, ma è la espressione della donazione, del sentimento sacrificale, del quale sono capaci i celebranti in quanto battezzati, in forza della donazione (sacrificio) di Cristo:

“Die Darbringung von Brot und Wein durch die Gemeinde ist kein Opfer von materiellen Gaben, sondern Ausdruck der Hingabe, der Opfergesinnung, welcher die Feiernden als Getaufte kraft der Hingabe Christi (des “Opfers” Christi) fähig sind” (pp. 35-36).

La stessa idea appare a p. 183, § 1 righe l-11, quando presenta la concezione di Lutero sul sacrificio della Messa.

3.2.3 Questa offerta (cioè la donazione sacrificale della comunità celebrante che esercita il suo sacerdozio) non è una conseguenza della “consacrazione”, come si ritiene nella concezione che afferma che il sacerdote offre il corpo e il sangue di Cristo, ma un suo presupposto, una premessa necessaria:

“Die Darbringung (der Opfervollzug) ist so nicht Folge der “Konsekration” (wie bei einer Konzeption, in der der Priester Leib und Blut Christi opfert), sondern eher deren Voraussetzung” (p. 36, § 1). La stessa tesi appare a p. 65, § 2; p. 66, § 2, righe l-3; p. 67, § 3.

3.2.4 Tale offerta è realizzata da tutta la comunità. In questo senso la celebrazione dell’Eucaristia è funzione del sacerdozio comune dei fedeli:

“Das Tun der Kirche in der Eucharistiefeier ist niemals selbstmächtiges Tun, es ist das Tun der am Priestertum Christi Partizipierenden. Kraft ihres Priestertums ist die Gemeinde befähigt, sich selbst Gott darzubringen in der Nachfolge Christi, das Opfer der Kirche zu vollziehen” (p. 82, § 2, righe 12-15).

In altri luoghi sostiene la stessa tesi, cioè che nelle preghiere eucaristiche della Chiesa Antica non c’è traccia della riserva esclusiva al sacerdozio ministeriale della consacrazione e dell’offerta. Si veda, per esempio, quanto dice a proposito della preghiera eucaristica d’Ippolito (cfr. p. 36, § 2, righe 7-l 1, e nota 71, dove afferma che il vescovo che presiede la celebrazione semplicemente dirige l’offerta della comunità, e la compie parlando a nome di questa); o sull’anafora di san Basilio (cfr. p. 64, § 2, righe 6-8); o sul testo del Canone romano: “Nos tui servi sed et plebs tua sancta”, che interpreta come segno di una tardiva clericalizzazione (cfr. p. 86, § 1, righe 11-14). Si veda anche quanto afferma a proposito della teologia di Lutero: p. 173, § 3 e p. 174; p. 180, righe 33-36; p. 197, righe 2-15; p. 204, § 2, righe 8-15.

3.2.5 L’autore da l’impressione di voler affermare l’attualizzazione del sacrificio di Cristo in dipendenza dalla fede dei credenti, e nel sacrificio della stessa comunità (cioè la presenza del sacrificio di Cristo sarebbe fondamentalmente soggettiva, nei fedeli). Per esempio egli sostiene:

“Daß die Messe ein Opfer ist, kann nur gesagt werden, wenn man den Tod Christi (bzw. sein ganzes Heilswirken, das im Tod gipfelt und in der Auferstehung als vom Vater angenommen erwiesen wird) als Opfer versteht. Dieses wird im “Opfer” (in der Darbringung) der Kirche vergegenwärtigt, und das wiederum ist nur möglich, weil die Gläubigen, die die Darbringung vollziehen, als Gerechtfertigte Anteil an Christi Sterben erhalten haben (vgl. Röm 6,3-l 1; Phil 3, 10) und “Nachahmer Gottes” (Eph 5, 2), Ebenbilder Christi (vgl. Röm 8, 29; 1 Kor 15, 49; 2 Kor 3, 18) und als solche in Christi Opfer (durch den Heiligen Geist, der in ihnen wohnt) hineingenommen sind” (p. 56, § 2).

In questo modo l’autore non riesce ad affermare la presenza sacramentale, oggettiva, dell’evento salvifico che è il sacrificio di Cristo: questa presenza non è collegata in nessun modo al rito sacramentale compiuto dal ministro ordinato sul pane e sul vino; lo è soltanto all’oblazione dei cristiani, alla loro fede, che li porta ad imitare la donazione di Cristo al Padre (cfr. p. 57, § 1, righe l-9). In questo senso afferma più avanti:

“Indem die Gläubigen ihre Hingabe an Gott vollziehen, die Werk Gottes ist (nos ipsos hostiam fecerit), wird das wahre Opfer “für uns” (das Opfer Christi) Gegenwart” (p. 58, § 2, righe 9-l 1).

Certamente la partecipazione della Chiesa al sacrificio dei Cristo può interpretarsi con la categoria della imitatio Christi. Ma l’imitatio “nella fede” non basta per rendere ragione del perché della presenza del sacrificio di Cristo. Prima si deve affermare la presenza oggettiva di Cristo e del suo sacrificio redentore.

3.2.6 Non sembra accettare il ruolo determinante delle parole di Gesù nella consacrazione dell’Eucaristia, perché riconosce efficacia soltanto alla epiclesi post-anamnetica, che è allo stesso tempo epiclesi di trasformazione (del pane e del vino, e della comunità nel corpo di Cristo) e di comunione (di tutti in Cristo) (cfr. p. 68, §§ l-2; p. 69 §1; p. 74, §1, righe 10-24). Per questa ultima ragione critica la struttura delle nuove preghiere eucaristiche del Messale romano, giacché possiedono doppia epiclesi (cfr. pp. 212-213, § 1).

Sullo stesso tema, ma a proposito delle spiegazioni medievali della Messa, egli afferma che sono molto confuse, perché attribuiscono alle parole dell’istituzione l’attualizzazione del corpo e del sangue di Cristo, e per questo le parole seguenti difficilmente possono relazionarsi con le “consacranda”:

“Doch sind die Aussagen der Meßerklärung ‑das gilt wohl für die ganze karolingische Zeit‑ keineswegs eindeutig, ja ziemlich verschwommen, weil sie die Vergegenwärtigung von Leib und Blut Christi den Einsetzungsworten zuschreiben und dadurch die nach dem Einsetzungsbericht stehenden Worte nicht problemlos auf die consecranda beziehen können” (p. 105, § 1).

3.2.7 In diversi luoghi interpreta la “consacrazione” dell’Eucaristia (realizzata dall’epiclesi Post-anamnetica, preghiera di tutta la comunità), negando qualsiasi rapporto con una pretesa potestas consecrandi del sacerdote ordinato e con le parole del Signore:

“Dies (la consacrazione) ist natürlich keineswegs im Sinne der späteren westlichen Lehre von der “potestas consecrandi” zu verstehen, nach der der ordinierte Amtsträger (vor allem als Priester, sacerdos, verstanden) kraft seiner Weihe durch die Rezitation der Einsetzungsworte als “forma conse-crationis” die “Wandlung” bzw. Transsubstantiation von Brot und Wein in Leib und Blut Christi bewirkt” (p. 35, nota 65). Cfr. anche: p. 94, § 2, righe 8-18; p. 95, § 1; p. 102, § 1 e § 3; p. 103, § 1, righe l-5).

Questa tesi è in contrasto con l’insegnamento del Magistero della Chiesa (cfr. Conc. Florent., Bulla unionis Armeniorum “Exultate Deo”: DS 1321; ID., Bulla unionis Coptorum Aethiopumque “Cantate Domino”: DS 1352; Pio VII, Ep. Adorabile Eucharistiae: DS 2718; Pio X, Ep. Ex quo nono: DS 3556; Giovanni Paolo II, Ep. Dominicae cenae, n. 8).

Secondo l’autore la dottrina di un potere speciale di consacrare nel ministro ordinato è soltanto una conseguenza della dottrina medievale che assicurava l’identità tra l’offerente e l’offerta, tra la Chiesa (che offre) e Cristo (che è offerto):

“Es liegt eine Vermischung von Zeichen- und Wirklichkeitsebene vor: die Kirche opfert Christus, der zeichenhaft Handelnde opfert die heilstiftende Wirklichkeit. Das “besondere Priestertum”, die “Opfergewalt” des Amtsträgers, ist die logische Folge aus dieser Meßopferlehre, denn es sichert die Identität von Opferndem und Opfergabe. Während in den frühmittelalterlichen Meßerklärungen durchwegs die Kirche kraft ihres (allgemeinen) Priestertums als Subjekt des Meßopfers erscheint, ist es in der Scholastik der Priester kraft seines besonderen (Weihe-)Priestertums” (p. 103, §1).

La stessa idea a p. 105, § 2, con una citazione di H.-Ch. Seraphim (nota 95), che rivela una delle fonti del pensiero di Reinhard Meßner. Si veda anche il giudizio estremamente negativo da questa “dottrina medievale” a p. 116, righe 5-8.

3.2.8 Per l’autore è lo Spirito Santo e non il sacerdote ordinato, con il suo potere di consacrare, a convertire i doni nel corpo e nel sangue di Cristo:

“Nicht der geweihte Priester durch seine “Konsekrationsgewalt”, sondem der Heilige Geist ist es, der unsere Gaben, Brot und Wein (als Ausdruck unserer Hingabe), wandelt (umstiftet) in Leib und Blut Christi (und das heißt: auch uns wandelt in den Leib Christi)” (p. 37, § 1, righe 4-7). La stessa idea a p. 110, § 2.

Con questo vuole sottolineare come la liturgia è opera della Chiesa, opera di Dio; e che la Chiesa non ha nessun “potere” di rendere operante per sé la realtà divina: può soltanto pregare, chiedere allo Spirito Santo la sua azione trasformante. Più avanti dirà che quello che fa l’uomo (la comunità) nella celebrazione anamnetica-epicletica è opera dello Spirito che abita in lui (l’azione umana-ecclesiale non può concorrere, né mettersi al posto dell’azione di Dio). Il compimento ecclesiastico dell’anamnesi è piuttosto espressione della fede, la cui forza è lo Spirito:

“Das, was der Mensch in der anamnetischen Feier der Eucharistie vollzieht (in Wort und Handlung), ist also Tat des in ihm wohnenden Geistes und kann daher niemals als menschliches (kirchliches) Handeln Gottes setzen. Der kirchliche Vollzug der Anamnese ist vielmehr Ausdruck des Glaubens, dessen Kraft der Geist ist, also die antwortende Annahme des allein heilwirkenden Tuns Gottes in Jesus Christus” (p. 50, § 1, righe 5-l 1).

Tutto questo potrebbe essere discusso, e con certe precisazioni perfino accettato (in parte). Tuttavia è sconcertante il modo in cui l’autore separa l’azione dello Spirito Santo dalle parole di consacrazione che il sacerdote ordinato pronuncia in persona Christi (dunque con la forza dello Spirito Santo).

3.3 Altra questione che richiede un chiarimento da parte dell’autore è quella dell’origine del sacrificio eucaristico nel Cristo storico.

3.3.1 Secondo lui nell’ultima cena non ci fu offerta di un sacrificio da parte di Cristo (cfr. p. 17, nota 28). Tale affermazione è in contrasto con l’insegnamento del Magistero della Chiesa (cfr. Conc. Trid., sess. XXII, Doctr. de ss. Missae sacrificio, cap. 1: DS 1740).

3.3.2 Ritiene che nella comunità cristiana primitiva non si conosceva una cena “sacramentale” nel senso in cui si trova in san Paolo (sacrificale):

“Es sieht vielmehr so aus, daß die Urgemeinde ein “sakramentales” Herrenmahl (in dem Sinne, wie wir es bei Paulus finden) nicht gekannt hat” (p. 26, §1, righe 4-5).

3.3.3 In diversi luoghi fa capire che nei primi tempi c’erano due riti contrapposti, uno conviviale (Mt, Mc: Chiesa di Gerusalemme), e altro sacrificale (Lc; 1Cor: comunità elleniche). Un esempio di eucaristia-banchetto fraterno, celebrato in un ambiente di alta tensione escatologica sarebbe quello che si trova nella Didaché, capp. 9-10, dove non si trovano riferimenti alla morte di Gesù (il che è invece costitutivo della cena del Signore presso san Paolo):

“Die Eucharistie hat keinerlei Bezug zum Tod Jesu, wie er für das paulinische Herrenmahl konstitutivist, sie ist ein “in eschatologischer Hochspannung” der in der Naherwartung lebenden Gemeinde gefeiertes Mahl, in dem um das Kommen des Herrn und die damit gegebene Vollendung der Kirche im Reich Gottes gebetet wird” (p. 27, § 1, righe 2-7). (È da notare che l’autore non fa cui nessun riferimento al cap. 14 della Didaché, dove il senso sacrificale è più evidente; soltanto lo fa a p. 40, nota 86).

In questo tema si avverte l’influsso di H. Lietzmann (Messe und Herrenmahl), il quale vedeva l’origine dell’Eucaristia della Chiesa nell’interpretazione data da Paolo e dalle comunità elleniche alla cena del Signore:

“Die von Lietzmann “Jerusalemer Typ” gennante Feier, die uns vor allem in Didache 9f vorliegt, ist jedoch im Verlauf der Entwicklung der altkirchlichen Eucharistiefeier vom anderen Typus gleichsam absorbiert worden (und dies dürfte tatsächlich in Ägypten und eventuell auch in Ostsyirien geschehen sein!), was zweifellos mit dem Schwinden der Naherwartung in der ersten Hälfte des 2. Jahrhunderts zusammenhängt. Die sozusagen klassische altkirchliche Eucharistiefeier ist wesentlich von der für das paulinische Herrenmahl zentralen Idee der Anamnese des Todes Jesu geprägt und enthält (in den allermeisten Fällen) den “Einsetzungsbericht” als Angelpunkt des Eucharistiegebetes" (p. 32, righe 12-20). Vid. anche nella stessa pagina la nota 52, dove riporta la tesi di H. Wilkens, che sembra condividere).

È chiaro che se tutto questo comportasse (e sembra di sì) la negazione dell’istituzione dell’Eucaristia - con il suo specifico contenuto sacrificale - da parte di Cristo, sarebbe in aperto contrasto con la dottrina cattolica insegnata dal Magistero (cfr. Conc. Trid., sess. XXII, Doctr. De ss. Missae sacrificio, cap. 1: DS 1637; Conc. Vat. 11, SC 47).

4. L’opera, nonostante i desideri manifestati dall’autore, non offre argomenti validi per portare avanti il dialogo ecumenico con i luterani, sia perché non rispecchia la verità della dottrina cattolica, sia perché offre una interpretazione molto discutibile della teologia e della liturgia eucaristica riformata da Lutero (lo stesso autore lo riconosce indirettamente, quando fa riferimento alle opere di F. Pratzner [cfr. p. 148, § 2, righe 17-25 e nota 141; p. 149, § 2) e di F. Man [cfr. p. 149, § 1, righe l-7 e note 143-144), per i quali il concetto di anamnesi in Lutero implica soltanto una “pura commemorazione del sacrificio della croce”; o quando ammette che Lutero tolse dai suoi formulari liturgici qualsiasi riferimento all’offerta esistenziale dei fedeli attraverso l’offerta dei doni, e ridusse la celebrazione a Parola che annunzia il Testamento, a comunione col Pane e col Vino: cfr. p. 184, § 2, righe 10- 15).

5. L’interpretazione della liturgia eucaristica si allontana apertamente dell’insegnamento del Magistero dalla Chiesa. Molto grave è la negazione della necessità del sacerdozio ministeriale per la celebrazione dell’Eucaristia. Altri tesi, anche prese soltanto come ipotesi, sono anche ugualmente gravi e contrarie alla fede Cattolica.

A.G.I. (1996)

Con posterioridad a la redacción de la presente recensión, la Congregación para la Doctrina de la Fe ha publicado una notificación sobre las obras de este autor (vid. AAS XCIII [2001] 395-403).

 

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