SCHNEIDER, Theodor (ed.); BAUMANN, Urs y OTROS

Geschieden, Wiederverheiratet, Abgewiesen? Antworten der Theologie

Herder, Freiburg-Basel-Wien 1995, 448 pp.

La rottura della convivenza familiare, particolarmente se ratificata dal divorzio civile, dà luogo ad innumerevoli sofferenze per i coniugi e per i figli, e causa un danno non lieve alla società, di cui la famiglia costituisce la cellula fondamentale. Tra quelle sofferenze è da annoverarsi la particolare situazione in cui si pongono, nei confronti della comunità cristiana e della vita sacramentale, i fedeli cattolici che contraggono in foro civile una seconda unione. La crescita di questo fenomeno negli ultimi 30 anni pone importanti problemi pastorali. A tutti i sacerdoti capita sempre più spesso di trovarci con fedeli divorziati risposati. Soprattutto quando si tratta di fedeli la cui seconda unione è avvenuta molti anni fa e che, riconoscendo di aver sbagliato, sentono la necessità di intensificare la loro vita cristiana, viene spontaneo il desiderio di trovare una soluzione positiva e soddisfacente per loro, specialmente per quanto riguarda la ricezione dei sacramenti. Quando la soluzione approvata per il foro interno (Esortazione Apostolica Familiaris consortio, n. 84: "La riconciliazione nel sacramento della penitenza —che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico— può essere accordata solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell'Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l'indissolubilità del matrimonio. Ciò importa, in concreto, che quando l'uomo e la donna, per seri motivi —quali, ad esempio, l'educazione dei figli— non possono soddisfare l'obbligo della separazione, assumono l'impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi") non è accettata dagli interessati, dopo lunga e sofferta riflessione ci si accorge che altre soluzioni positive sono in netto contrasto con punti fondamentali della dottrina della Chiesa Cattolica, e che non potrebbero essere messe in pratica senza indebolire l'annuncio evangelico dell'indissolubilità dell'amore coniugale, favorendo così, anche se involontariamente, il moltiplicarsi delle situazioni che causano dolore ai fedeli, ai pastori e alla comunità cristiana.

Resta nel cuore tuttavia l'inquietante interrogativo se una più approfondita riflessione teologica e pastorale non ci permetterebbe fare ancora qualcosa per i fedeli divorziati risposati. Questa inquietudine spiega l'interesse con cui vengono accolti gli studi approfonditi sulla materia, come è quello recentemente curato da Th. Schneider (Geschieden, Wiederverheiratet, Abgewiesen? Antworten der Theologie, Herder [Quaestiones disputatae, 157], Freiburg-Basel-Wien 1995, 448 pp.). Si tratta di una raccolta di 22 saggi che affrontano gli aspetti biblici, storici, canonistici, teologico-morali e pastorali del problema, pubblicata in seguito alla Lettera ai Vescovi cattolici circa la recezione della comunione eucaristica da parte dei fedeli divorziati risposati, emanata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede il 14 settembre 1994.

C'è in quasi tutti gli autori del volume una viva sensibilità verso la situazione pastorale che si è venuta a creare con l'estensione del divorzio e del matrimonio civile anche tra alcuni cattolici. Ugualmente viva è la percezione dei cambiamenti culturali e sociali che rendono difficile in alcuni ambienti la comprensione della realtà sacramentale del matrimonio cristiano. Manca tuttavia lo sforzo per capire e presentare positivamente le valide ragioni dottrinali, teologiche e pastorali dell'insegnamento della Chiesa Cattolica, visto in partenza in modo alquanto sbrigativo come status quo dell'ordinamento matrimoniale attuale che sarebbe senz'altro da superare (cfr p. 19).

Sembra mancare ugualmente la sensibilità per recepire la suddetta Lettera tenendo conto del genere letterario in cui la Congregazione per la Dottrina della Fede ha ritenuto opportuno esprimersi. Dato che del problema si era occupato il Sinodo dei Vescovi del 1980, e successivamente il Romano Pontefice con l'Esortazione Apostolica Familiaris consortio (cfr soprattutto nn. 77-85), il Dicastero Romano ha inteso richiamare attraverso una semplice lettera questo insegnamento della Chiesa, allo scopo di evidenziare l'inadeguatezza di alcune recenti ipotesi pastorali. Una lettera quindi, e non un trattato storico, esegetico, teologico, e neppure un'istruzione o un'enciclica. E comunque, per esempio, nel saggio di H. Frankemölle (pp. 28-50) vengono mosse delle critiche formali: non si impiegano tutti i passi biblici che riguardano il problema in studio, non si studia la ricezione di quei testi nella storia della teologia e dei dogmi, ecc. Queste e altre considerazioni sarebbero opportune per la valutazione di una monografia avente lo scopo di esporre i fondamenti biblici, teologici, ecc. della dottrina della Chiesa in materia, ma nei confronti della Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede sono fuori posto. Il genere letterario e lo scopo di essa consente una sola e fondamentale domanda: è trasmessa con fedeltà e esattezza la dottrina della Chiesa riproposta recentemente dalla Familiaris consortio e dal Catechismo della Chiesa Cattolica (nn. 1649-1650)? Sì oppure no?

Ma questa fondamentale domanda non viene posta nel volume che recensiamo, il quale sembra rispondere a delle istanze diverse. Quando nella prefazione dell'editore (cfr pp. 7-9) si afferma di voler offrire un contributo al dialogo, che deve svolgersi però con la garanzia che l'argomentazione della Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede possa essere commentata, discussa ed eventualmente respinta, non si vuole mettere in discussione la congruenza della Lettera con la dottrina della Chiesa, ma questa stessa dottrina, almeno per quanto riguarda la sua applicazione pastorale. H. Werners si pone la domanda se la Chiesa, quando fa delle dichiarazioni non infallibili, può sbagliare. L'errore è possibile —risponde H. Werners—, e questo sarebbe il caso di quanto affermato dalla Familiaris consortio sui divorziati risposati. L'errore della Familiaris consortio consisterebbe nel non rendersi conto che l'affermazione dell'indissolubilità del matrimonio sul piano dottrinale non è incompatibile con la tolleranza pastorale in alcuni casi di una seconda unione, tolleranza che sarebbe giustificata dalla necessità di evitare mali maggiori e dal principio dell'oikonomia (cfr p. 83), oppure dall'epicheia (cfr pp. 281-283).

La Chiesa Cattolica ha da sempre ritenuto che il sacramento del matrimonio, segno dell'unione fra Cristo e la Chiesa, stabilisce tra marito e moglie un vincolo che solo la morte può sciogliere. "Benché si possa avere la separazione del letto nuziale e della convivenza a causa dell'adulterio, dell'eresia o per altri motivi, non è concesso tuttavia a loro di contrarre nuove nozze" (Professio fidei pro orientalibus di Urbano VIII, anno 1633; cfr Concilio di Firenze, DS 1327). Mentre la vera moglie o il vero marito sono in vita non è possibile contrarre una seconda unione legittima. Vivere in una unione illegittima, come qualsiasi altro peccato, può essere perdonato solo se c'è pentimento, ma il pentimento implica il proposito di assumere una forma di vita compatibile con l'indissolubilità del matrimonio.

Nel volume che recensiamo si tenta di mostrare in primo luogo che la dottrina e la prassi pastorale della Chiesa Cattolica non è l'unica interpretazione possibile della tradizione cristiana. Ci provano, dal punto di vista dell'esegesi neotestamentaria, H. Frankemölle (cfr pp. 28-50) e J. Kremer (cfr pp. 51-67). Malgrado la clausola mè epì porneía (nisi ob fornicationem) di Mt 19, 9, sul cui significato esistono diverse ipotesi e una letteratura quasi sterminata, mi sembra che gli stessi autori riconoscono in definitiva che i testi del Nuovo Testamento non lasciano un margine di interpretazione troppo ampio. L'insieme dei testi e dei contesti sono ben lontani da offrire una dimostrazione apodittica della liceità di una seconda unione. E' vero piuttosto il contrario. Se non ho capito male, si sceglie la via di suggerire che l'interpretazione cattolica sarebbe una inadeguata comprensione legalistica delle parole di Gesù. Il riferimento del Signore "al principio" vorrebbe mostrare che il matrimonio è una realtà più profonda: presuppone una comunità di vita e "un rapporto umano che è esistito prima della legge e che non può essere mai apprezzato per mezzo della legge" (p. 44). Si osserva pure un interesse a collegare l'insegnamento sul divorzio con quello sul giuramento e sulla rinuncia alla violenza (Mt 5, 33 ss.), per poter lasciare una porta aperta a interpretazioni larghe, non letterali, delle parole di Gesù.

M.M. Garijo-Guembe affronta il problema dal punto di vista patristico e storico (cfr pp. 68-83). Lo studio è realizzato con serietà. Tuttavia devono essere fatte alcune osservazioni: 1) L'analisi dei testi patristici utilizzati dallo stesso autore non fondano le sue conclusioni, o almeno non permettono di attribuire alle conclusioni una portata così generale. Le fonti sono più differenziate, non sono unanimi. L'unica unanimità riscontrata riguarda l'indissolubilità del sacramento del matrimonio. 2) Sarebbe da approfondire e soprattutto da completare lo studio dei testi di san Girolamo e sant'Agostino. Andrebbero chiarite le circostanze dei casi concreti in cui alcuni padri —quasi sempre in passi assai oscuri— sembrano tollerare una seconda unione, così come andrebbe chiarito l'influsso esercitato dal diritto civile dell'epoca. 3) Si avverte un certo "interesse" che guida la lettura dei testi non chiari o addirittura ambigui, in modo da dare sempre la priorità all'interpretazione in linea con la tesi centrale di questo libro. 4) Gli stessi testi patristici ed ecclesiastici sono stati studiati in maniera più approfondita da altri autori, come per esempio H. Crouzel, che arrivano però a conclusioni assai diverse, soprattutto dopo aver valutato dal punto di vista del metodo storico i principi ermeneutici adoperati dagli autori (J. Moingt, V.J. Pospishil, P. Nautin, G. Ceretti) che credono vedere nei Padri una comprensione dell'indissolubilità diversa da quella cattolica.

Nello studio di G. Lachner sulla teologia e la prassi delle chiese ortodosse (cfr pp. 127-142) si costata, da una parte, che la cessione al potere civile della competenza sul matrimonio da parte delle chiese ortodosse ha avuto storicamente conseguenze negative e ha dato luogo a non pochi abusi (cfr p. 141); e si riconosce, dall'altra, che i tentativi di fondazione teologica della prassi ortodossa da parte di diversi teologi presuppongono concezioni della sacramentalità del matrimonio che urtano la sensibilità cattolica (cfr pp. 133 ss.). Mi sembra che neppure questo studio offra un chiarimento teologico soddisfacente sulla possibilità di rendere compatibile l'indissolubilità del matrimonio con una prassi pastorale diversa da quella approvata dalla Chiesa.

Questa impressione viene confermata dalla lettura dei saggi che affrontano il problema da un punto di vista sistematico. Sebbene con sfumature diverse, si cerca di giustificare una nuova prassi pastorale verso i divorziati risposati sulla base di concezioni del matrimonio che modificano in punti essenziali la concezione cattolica. Contro una "visione oggettivistica" del vincolo coniugale, si suggerisce che il matrimonio è fondamentalmente l'amore coniugale e i rapporti interpersonali da esso ispirati. Se quell'amore viene a mancare, il matrimonio "muore", e allora il compito della Chiesa non sarebbe quello di sciogliere un matrimonio ormai inesistente, ma di prenderne atto dell'avvenuta morte e di concedere agli interessati l'opportunità di un nuovo inizio (cfr G. Scherer, p. 167 e J. Gründel, p. 297). Ma in pratica questo significa semplicemente ammettere il divorzio in quanto al vincolo, giacché mentre "l'amore" tra i coniugi è vivo essi non hanno interesse alcuno a romperlo. Il problema del divorzio si pone soltanto quando uno o entrambi i coniugi ritengono che il loro amore non esiste più o non è più possibile.

Altri autori sostengono che, contro una visione statica, si deve sostenere una visione dinamica del matrimonio come processo (cfr per esempio i contributi di P. Walter e di J. Gründel). Il vincolo e la consumazione del matrimonio vanno concepiti come effetto di un lungo e graduale processo di maturazione e non come qualcosa che viene all'esistenza in un momento dato. In questa linea è assai significativa l'argomentazione di P. Walter. Questo autore riconosce che la linea pastorale sui divorziati risposati ricordata dalla Familiaris consortio è conforme alla tradizione ed è la più consona al Vangelo, ma questa soluzione oggi non è più possibile, giacché il consenso ecclesiale che c'era su questo punto non esiste più (cfr p. 174). E dopo aggiunge che se si vuole prendere sul serio la dottrina sul matrimonio rato e non consumato, si dovrà ammettere che il vincolo coniugale non inizia con la celebrazione del matrimonio né finisce con il divorzio. In realtà, nemmeno la morte riuscirebbe a romperlo. È vero, continua, che in Occidente si è imposta l'idea, non esenta di difficoltà, che il vincolo scompare con la morte. Pur ammettendolo, ciò che risulta chiaro è che esiste una aperta tensione tra questa idea da una parte, e la concezione del matrimonio del Nuovo Testamento e l'esperienza umana di un legame che continua dopo la morte dall'altra. Se malgrado questo "legame", dopo la morte del coniuge è legittimo contrarre nuove nozze, "non si può pensare che anche dopo il divorzio, che è la «morte» di un matrimonio, la permanenza di un vincolo con il «partner» divorziato non esclude un nuovo vincolo con un altro «partner»? Prendere atto da parte della Chiesa di questa situazione non presupporrebbe un divorzio formale del primo matrimonio (...), ma lascerebbe la decisione sulla validità del primo matrimonio nelle mani di colui che giudica sulla vita e la morte" (p. 178). Questa argomentazione, benché miri a uno scopo diverso, ha un punto di contatto con l'argomentazione presentata dai sadducei contro la risurrezione (cfr Mt 22, 23-28; Mc 12, 18-23; Lc 20, 27-33), e come questa ha tutta l'aria di essere un semplice espediente dialettico. La risposta del Signore è ugualmente valida per entrambe: "Alla risurrezione infatti non si prende né moglie né marito, ma si è come angeli nel cielo" (Mt 22, 30).

Abbiamo detto all'inizio di queste pagine che di fronte a particolari situazioni in cui vengono a trovarsi alcuni fedeli divorziati risposati, dopo lunga e sofferta riflessione ci si accorge che altre possibili soluzioni sarebbero in contrasto con gli insegnamenti del Vangelo sul matrimonio. La lettura di questo libro ne costituisce un'ulteriore conferma. Attraverso la riproposizione delle difficoltà interpretative di alcuni pochi testi patristici, o mediante una modifica più o meno sostanziale della comprensione del sacramento del matrimonio, il problema dottrinale posto da un'eventuale ricezione dell'Eucaristia da parte di quei fedeli viene evaso o distrutto, ma non teologicamente risolto. Le soluzioni auspicate in questo volume implicano, infatti, una sostanziale alterazione dei dati dottrinali che costituiscono il problema stesso, e perciò non sono praticabili. Insistere su tali prospettive, mentre si fa passare per infondato e antinaturale l'insegnamento della Chiesa in materia, non farebbe altro che aggravare ancora i problemi attualmente esistenti. Sarebbe più proficuo impegnarsi in iniziative pastorali di prevenzione, capaci di individuare e superare progressivamente le cause dei fallimenti matrimoniali, così come è auspicabile una maggiore celerità dei processi matrimoniali e un'accurata riflessione sul modo più equo di applicare le soluzioni approvate.

 

                                                                                                              A.R.L. (1996)

 

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