Gracias a Dios, ¡nos fuimos!
OPUS DEI: ¿un CAMINO a ninguna parte?

Ricostruzione
Indice
Prologo
1. Presagi
2. Numeraria
3. Maturita' e liberta' interiore
4. Crisi di vocazione
5. Rinascita
6. Ricominciare: primo tentativo
7. Ricostruzione
FIN DEL LIBRO
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RICOSTRUZIONE
(18 anni nell'Opus Dei)

Autore: Aquilina

CRISI DI VOCAZIONE

Quando prima ho accennato al lavoro di reclutamento di nuove vocazioni per l'Opus Dei, ho toccato quello che adesso, dopo tanti anni, mi sembra di percepire come la cosa più immorale di tutto quel sistema: il proselitismo instancabile e indefesso, perseguito tramite la tecnica di far passare per volontà di Dio la volontà di quelli che appartenevamo all'organizzazione; il coinvolgere il maggior numero possibile di persone, incuranti di remore personali, di bisogni familiari, di attitudini caratteriali. Solo esperienze sessuali precedenti, o un carattere per i nostri standard troppo insulso e privo di attrattive poteva liberare una malcapitata dal divenire oggetto delle nostre persecuzioni proselitistiche (parlo al femminile perché nell'Opus Dei esiste una rigida separazione fra la parte femminile e quella maschile dell'associazione). Io credevo in quello che facevo, e quindi lo facevo con passione, senza risparmiare ore di sonno, viaggi, offerta delle penitenze più pittoresche, e tutto quello che la fantasia e la passione mi suggerivano.

Per contro, pur essendo entusiasta, dentro di me non ero sempre serena: si alternavano momenti di depressione, che ancora non ero capace di riconoscere come tali, a crisi terribili di scrupoli, che se solo fossi stata più fiduciosa e sicura di me stessa, interpretando così correttamente i segnali che il mio corpo e la mia psiche mi mandavano, mi avrebbero messo sull'avviso circa il fatto che poi le cose non andassero così magnificamente bene come pretendevo.

Quando vado indietro nei miei ricordi, credo di ricordare la prima volta in cui sperimentai la sensazione di disagio della depressione, il malessere dell'anima e del corpo che sarebbe cresciuto col tempo dentro di me fino a devastarmi e a diventare, per lunghi anni, il compagno della mia esistenza. Fu dopo circa un anno e mezzo che avevo chiesto l'ammissione all'Opera. Non avevo ancora iniziato a fare vita di famiglia. Il primo corso annuale, l'estate precedente, in cui avevo sperimentato la convivenza con altre giovani vocazioni come me durante una ventina di giorni, era trascorso senza incidenti particolari. Durante una settimana mi ritrovai di nuovo in mezzo a gente dell'Opera in occasione della convivenza di Pasqua, un'occasione nella quale membri dell'Opera e simpatizzanti di tutto il mondo si riuniscono a Roma per un evento che, all'esterno, appare come un megacongresso universitario, ma che in realtà ha l'obiettivo principale di provocare la crisi vocazionale nelle persone più pronte a rispondere di sì. In quelle giornate tutti gli aspetti della vita dell'Opus Dei si vivevano, se possibile, a tinte ancor più cariche del solito: gli incontri col Fondatore, con tutto quello che queste tertulias portavano con sé di adesione incondizionata ad ogni parola che pronunciava, di dimostrazione esagerata di affetto, di gioia, di preparazione di ogni intervento perché nulla sfuggisse di improprio o di meno che positivo; la preoccupazione e l'impegno perché le nostre amiche si decidessero a chiedere l'ammissione all'Opera, o si convertissero al cattolicesimo. Inoltre ognuna di noi era chiamata a uno sforzo supplementare per vivere, oltre al piano di vita abituale, un apostolato più serrato e quotidiano con le varie amiche di cui era responsabile e le pratiche di mortificazione e di penitenza abituali nelle condizioni proibitive di un tour turistico.

Oltre agli incontri col Fondatore, quelle giornate prevedevano delle visite guidate alle case centrali dell'organizzazione -Villa Sacchetti e Villa delle Rose- tertulie con le direttrici centrali che vertevano esclusivamente sul Padre e sull'apostolato nelle varie nazioni del mondo, visite nelle basiliche e nelle catacombe romane, le funzioni della Settimana Santa celebrate in modo solenne e nelle forme liturgiche più complete e, perciò, più prolungate… Psicologicamente, si creava una situazione di grande tensione interiore: la preparazione della domanda, forse decisiva per il suo "sì" definitivo, che la propria amica doveva rivolgere al Padre nella prossima tertulia, il colloquio prolungato e spesso notturno -visto che durante il giorno c'erano troppi impegni per fare le chiacchierate più impegnative- con la ragazza più in crisi di vocazione, l'attesa di sentirsi invitate a partecipare alle funzioni a Villa Sacchetti -segno di distinzione delle numerarie considerate più grandi- l'attuazione semiclandestina per invitare le proprie amiche, facendo intendere loro che si stava quasi trasgredendo ad una consegna importante, a partecipare agli incontri col Fondatore destinati esclusivamente alle associate…

Fu probabilmente per la pressione a cui ero sottoposta da tutti questi fattori che, nonostante il piacere che provassi a trovarmi lontana e indipendente dai miei genitori, a non dover chiedere continuamente permessi per uscire o per vedermi con qualcuno, a poter pregare e fare apostolato a mio piacimento, pure ad un certo punto mi ritrovai in uno stato di smarrimento: con la sensazione di una grande solitudine, in preda ad un malessere interiore che non capivo e che si travasava nel mio fisico facendomi sentire amareggiata, confusa, come delusa da qualcosa di indefinito, bloccata e rallentata nei movimenti, infelice senza un preciso perché.

Forte dell'educazione familiare ricevuta, che vedeva nella forza di volontà la panacea per tutti i mali, reagii a quelle sensazioni e me le scossi di dosso con relativa facilità tornando a tuffarmi in quello che ero convinta che fosse il mio sogno realizzato: essere dell'Opus Dei, sapermi figlia di Dio ed essere chiamata a donare tutta la mia vita per salvare le anime.

Da quel giorno in poi quello strano stato d'animo tornò ogni tanto -nei primi anni molto sporadicamente- ad affacciarsi dentro di me. Dapprima pensai che dipendesse dagli alti e bassi fisiologici della vita di ognuno. Negli anni del Centro di Studi lo attribuii alla fatica di terminare il liceo contemporaneamente all'impegno della formazione intensa di quel corso, in seguito alla fatica di fare l'Opera in condizione quasi sempre eccessivamente esigenti e faticose… Mi sembrava che trovare una causa bastasse per giustificare un malessere tanto sgradevole, senza mai sospettare che potesse essere il segnale di che c'era qualche cosa che non andava a livello più profondo e grave. Alla fine, mi abituai a pensare che fosse normale trovarmi a combattere periodicamente con un disturbo che si presentava col trascorrere degli anni in modo sempre più pesante, invadente e frequente.

Tutta la formazione che avevo ricevuta nel corso degli anni e che veniva rinforzata quotidianamente, settimanalmente, mensilmente, annualmente dai più svariati mezzi di formazione mi aveva insegnato che la santità richiedeva lotta e sforzo, che la mia natura umana era portata a ribellarsi, e perciò interpretavo le mie difficoltà interiori, i miei bruschi e pesanti abbassamenti di umore, il peso che avvertivo ogni mattina svegliandomi e prendendo coscienza di me, alla luce dei trattati di ascetica, e speravo senza osarlo di trovarmi nella notte dei sensi descritta da santa Teresa d'Avila e da san Giovanni della Croce.

Vivevo con desiderio e repulsione, contemporaneamente, il colloquio settimanale di direzione spirituale: da una parte sentivo un desiderio impellente e coatto di dialogo intimo con un essere umano che fosse veramente spontaneo e senza riserve. Con le amiche che trattavo a fini apostolici e proselitistici non sarebbe stato di buono spirito fare confidenze personali se non nella misura in cui le mie confidenze potevano attrarre le loro. Era censurato, come di pessimo spirito, parlare delle proprie difficoltà, dei propri dubbi o delle proprie insoddisfazioni, o timori, o nostalgie. Veramente era censurato anche che ne parlassimo con noi stesse: ogni pensiero di questo tipo ero stata formata a catalogarlo come "tentazione" e perciò a scartarlo al più presto, salvo poi renderne conto nella prossima direzione spirituale, ma anche lì senza indulgere, senza cercare di capire e di capirmi, solo le parole necessarie per chiedere perdono e passare oltre. Con le altre associate le censure erano ancora più strette: gli argomenti e le confidenze personali erano tabù al di fuori del colloquio di direzione spirituale, fra noi non avevamo nemmeno la scusa di dover fare apostolato.

I consigli spiccioli che ricevevo nei miei colloqui di direzione spirituale, però, mi deludevano profondamente e mi lasciavano con una insoddisfazione sempre più profonda. Oltre tutto ero obbligata dall'obbedienza, a volte, a confidarmi con persone che mi risultavano antipatiche e repellenti, anche se questi sentimenti, per quanto intimi e primari, non erano ammessi con le proprie sorelle e nei rapporti di vita interiore. La mia rigidezza mentale e la mia scrupolosità, come ho già raccontato, mi obbligavano a parlare in questi colloqui aprendomi completamente, senza consentirmi la minima riserva mentale o il minimo spazio di riservatezza. D'altra parte chi mi ascoltava non sembrava prendere con troppa serietà le mie difficoltà interiori ed esteriori, addirittura avevo la sensazione che minimizzassero in maniera infastidita le mie interpretazioni misticheggianti delle difficoltà che provavo.

In questo modo continuava a crescere il mio disorientamento e la mia incapacità di porre rimedio al mio malessere interiore: sentivo che la parte più intima di me si stava sgretolando rovinosamente, ma non avevo né le parole né le categorie mentali per parlarne e per ottenere l'aiuto di cui avevo bisogno. Ciò nonostante, fidandomi di quello che mi avevano sempre insegnato, e che io avevo con sicurezza insegnato alle altre, continuavo a credere con fiducia nel valore della sincerità, dell'umiltà, nell'amore dell'Opera verso di me:"Parlate, e si risolverà ogni difficoltà interiore" "Aprite completamente le vostre anime al buon Pastore, se volete perseverare" "Il buon Pastore (il Padre, le direttrici in nome suo) prende sulle spalle la pecorella che si sta smarrendo" "Nell'Opera esiste tutta la farmacopea necessaria"…

Io parlavo, con sempre maggiore difficoltà, sempre più contropelo e nauseata, per non riuscire ad avere risposte adeguate, orientamenti precisi, diagnosi operative.

La vita nell'Opera, che pure avevo amato per anni, cominciava a disgustarmi. Il mio buono spirito si rifiutava ancora di fare due più due, di collegare le cause con gli effetti, di risalire, da questo disgusto, alla saturazione che ormai avevo raggiunto per quello stile di vita così poco autentico, così contro natura, così disumano senza essere per questo veramente soprannaturale.

Inizialmente pensai che Dio mi rendeva così insoddisfatta perché voleva da me una donazione più profonda. In alcuni momenti fantasticai di chiedere di passare ad essere numeraria ausiliare: nascondimento totale, oblio, abnegazione in una vita di umiltà e sottomissione radicali. Ma non avevo mai sentito che si fosse permessa una cosa simile, e il sesto senso che avevo ormai acquisito rispetto ai criteri dell'Opera mi suggeriva di lasciar perdere, che non era una strada praticabile.

Mi rendevo conto di provare ormai repulsione per le eccessive manifestazioni di filiazione al Padre, mi urtavano le dimostrazioni esplicite di affetto e sottomissione che per le altre sembravano essere perfettamente normali. Ero stanca di vedere con tanta frequenza le proiezioni delle tertulie di moltitudini di vari paesi col Fondatore o con il Prelato dell'epoca. Mi sentivo confusamente in crisi nel partecipare all'organizzazione degli incontri che don Alvaro fece in Italia con molti gruppi di persone dell'Opera e di nostre amiche. I preparativi minuziosi e pieni di dettagli di affetto e di rispetto superlativi, la preparazione selettiva delle domande che le ragazze avrebbero rivolto al Prelato, la gioia esagerata e con qualche punta di isteria che questi incontri risvegliavano nella maggior parte delle altre associate destava in me una crescente reazione di insofferenza, di rigetto, di critica.

Cominciavo a diventare allergica alla parola "spontaneamente" che nell'Opera veniva usata continuamente, a proposito o a sproposito, per indicare ogni manifestazione di buono spirito, ogni gesto di affetto e di rispetto verso il Prelato.

Iniziavo ad intuire oscuramente che, come membro dell'Opera, ero vittima di una manipolazione semantica: noi non chiedevamo permessi: "ci consultavamo con le direttrici"; queste non davano ordini: "chiedevano per favore"; non eravamo tenute ad avvisare dei nostri spostamenti: "salutavamo la direttrice" e "lasciavamo detto dove essere rintracciabili"; non disponevamo di un peculio: "facevamo cassa"; eccetera, eccetera… Analogamente, pur essendo in teoria libere di vestirci come volevamo, ogni acquisto di abbigliamento era supervisionato da una seconda numeraria che sempre si accompagnava ad ognuna che usciva per fare spese; si viveva il "dolcissimo precetto" -così si alludeva al quarto comandamento del decalogo- pregando per le proprie famiglie d'origine, ma senza mai lasciarsi coinvolgere dai loro bisogni e dalle loro situazioni; la cosa più innocente del mondo, come fare una telefonata interurbana di auguri ad una familiare fuori città o prendere un'aspirina per far passare un mal di testa, se non era richiesta alla direttrice e approvata da lei diventava un atto di superbia, una piccola mancanza di buono spirito in un'organizzazione che faceva della cura delle piccole cose, dell'unità e del buono spirito i suoi cavalli di battaglia. Si finiva così per incentivare, anche in vocazioni consolidate e provate, comportamenti che in altre istituzioni della Chiesa venivano dalle stesse persone messi in ridicolo perché propri di novizie eccessivamente scrupolose. Invece che dare dottrina e poi far volare le persone sulle ali della libertà e dell'amore, facendo acquisire autonomia e rifiutandosi di certificare le scelte più insignificanti, i direttori erano spinti continuamente a diffondere indicazioni concretissime su dettagli futili e transeunti. Così il numerario esemplare finisce per essere un campione nell'andare controcorrente nell'ambiente esterno all'Opera, ma non oserebbe mai andare controcorrente all'interno di essa, neppure su aspetti che magari inizialmente turbano la sua conoscenza, o su altri talmente discutibili da venire presto dichiarare superati.

Nonostante la qualità umana e soprattutto intellettuale di tanta gente dell'Opera, il ripetersi del meccanismo di occultamento semantico fa sì che si perda il contatto con la vera natura delle proprie azioni, impedendosi innanzitutto la capacità di comprendere cosa si sta veramente facendo, e poi, con la ripetizione e l'automatismo arrivando forse a perdere la responsabilità di fare una cosa chiamandola col nome esattamente opposto.

Analogamente si finisce per occultare una sorta di infantilismo umano e soprannaturale, che porta a semplificare tutte le realtà con cui si entra in contatto, con atteggiamenti compensatori di spavalderia, di superiorità, di assenza di dubbi.

Cominciavano a risvegliarsi dentro di me le prime ribellioni contro le indicazioni continue e minuziose che riguardavano ogni comportamento e ogni giudizio che dovevamo avere come membri dell'Opera. Erano i primi anni dopo la morte del Fondatore, e, credo, il Prelato dell'epoca, don Alvaro del Portillo, aveva paura che l'Opera perdesse il buono spirito originario. Così, regolandosi su un'elementare legge di balistica, alzò il tiro e cominciò a mandare indicazioni più strette e severe di quelle, già rigide, che avevano regolato l'Opera fino ad allora.

Il mio disagio e la mia insoddisfazione continuavano a crescere. Parlavo, ma non se ne davano per inteso, e fino alla fine non fui sollevata dai miei incarichi e dalle mie responsabilità. La mia emotività era stata sempre di difficile gestione fin dagli anni dell'infanzia: benché fossi per lo più una persona gioviale e positiva, quando mi veniva da piangere non riuscivo a trattenermi né a procrastinare, qualunque fosse il contesto in cui mi trovassi; e mi veniva da piangere sempre più spesso, in maniera sempre più incontenibile e dirotta, anche quando mi trovavo in pubblico. Questo comportamento peggiorò drasticamente, e non riuscivo più a gestirlo. Mi prese un crescente senso di disgusto e di repulsione nei confronti del mio lavoro di tutti i giorni. Lo spirito critico, un campo di lotta interiore sempre molto vivace per un membro dell'Opera data la vastità di pretesti che potevano suscitarlo, divenne quasi ingestibile. La tristezza finì per diventare il colore imperante delle mie giornate, non riuscivo più ad accettare e tollerare tutte le regole che fino ad allora avevano scandito le mie giornate e non riuscivo più a partecipare in maniera attiva e volenterosa, come avevo sempre fatto, ai momenti di formazione e di esercizi spirituali.

All'inizio dell'estate dell'85 questa situazione esplose e non si potè più ignorare: mi trattarono, durante il corso di formazione annuale, con maggiori riguardi, mi permisero -dato che anche le ore di sonno erano rigidamente regolate- di dormire di più, fui esonerata da alcune delle attività di formazione meno importanti, ma continuarono a tormentarmi con altre sciocchezze, tra cui ricordo con particolare sofferenza una correzione fraterna che mi fecero perché non cantavo assieme alle altre nelle gite e nelle tertulie, quando si intonava qualche coro. Questo rimprovero mi è rimasto tanto impresso per il gran senso di ribellione che mi provocò, ma solo dopo molti anni ho compreso che non mi rivoltavo semplicemente contro una mortificazione gratuita che potevano avermi inflitto, ma che era l'inizio di una ribellione totale, che non potevo più cantare come se niente fosse mentre la mia intera vita affettiva era ormai paralizzata dallo sforzo diuturno, di anni, fatto per partecipare sinceramente di sentimenti e convinzioni che non erano veramente miei, che mi erano stati imposti dall'esterno senza che né io, né le persone che si erano assunte davanti a Dio la responsabilità della mia anima, fossimo sfiorate dal dubbio che potessero non essere autentici. Senza che io lo sapessi, dentro di me erano andati maturando gli anticorpi che adesso iniziavano il loro sforzo di rigetto contro tutto quel sistema di vita che -lo avrei scoperto molto più tardi e dopo tante sofferenze- non era mai stato veramente mio.

Al ritorno da questa vacanza estiva, nonostante avessi anche assunto qualche farmaco antidepressivo prescrittomi da una numeraria neuropsichiatra, non stavo affatto meglio. Fui esonerata fino a dicembre dalla maggior parte dei miei compiti quotidiani, salvo quelli in cui la mia presenza era necessaria per rendere giuridicamente validi degli atti di governo. Verso Natale, visto che non uscivo da quella che ormai tutti sapevamo chiaramente essere una vera e propria forma depressiva, mi dissero che avevano deciso di mandarmi in Spagna, a Pamplona, dove l'Opus Dei ha l'Università di Navarra, un ateneo modello in cui è presente, tra l'altro, una facoltà di medicina con annessa clinica universitaria. Fui accompagnata in quel viaggio, che ormai non ero neppure più in grado di fare da sola, da una numeraria del mio centro. Quando questa, dopo un paio di giorni, doveva ripartire, le dissi disperata che non volevo restare lì dove mi sentivo isolata e a disagio in una ambiente di persone sconosciute. Mi trattò con una durezza e con un'impazienza che ricordo ancora con angoscia.

A Pamplona non fui ricoverata in clinica: vivevo presso un piccolo centro che esisteva appositamente per ospitare le numerarie che venivano da tutto il mondo per problemi di salute. Al mattino andavo a dare una mano per fare i lavori domestici presso una residenza universitaria poco lontana, al pomeriggio, due o tre volte la settimana, andavo a fare terapia psichiatrica presso la clinica universitaria. Mi fecero una montagna di analisi, e cominciai a prendere psicofarmaci che probabilmente aumentavano i miei disturbi, ma dei quali sicuramente non avrei potuto fare a meno, data la pesantezza che avevano raggiunto i miei sintomi depressivi. Una persona esuberante e piena di risorse come me, che ero partita infinite volte con gruppi di ragazzine anche di solo dodici, tredici anni per accompagnarle all'estero, destreggiandomi fra documenti, lingue straniere, orari e ritardi e l'indisciplina del gruppo scontata per quelle fasce d'età, era ridotta ad essere preda di forme di ansia che facevano diventare un'impresa angosciante anche soltanto prendere un autobus o un treno non accompagnata.

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