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OPUS DEI: ¿un CAMINO a ninguna parte?

Ricostruzione
Indice
Prologo
1. Presagi
2. Numeraria
3. Maturita' e liberta' interiore
4. Crisi di vocazione
5. Rinascita
6. Ricominciare: primo tentativo
7. Ricostruzione
FIN DEL LIBRO
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RICOSTRUZIONE
(18 anni nell'Opus Dei)

Autore: Aquilina

RINASCITA

Inevitabilmente, anche se mi avevano preavvisato che mi sarebbe successo e che non avrei dovuto dialogare con quella "tentazione", comincia a pensare che, se non fossi guarita al più presto, avrei dovuto andarmene dall'Opus Dei. Stavano diventando intollerabili le devozioni comuni, la lettura delle pubblicazioni interne che ormai percepivo essere insopportabilmente autocelebrative, la visione reiterata di filmati di incontri con il fondatore dell'Opera, morto anni prima, o con il suo successore, realizzati con modalità di culto della personalità che, oggi, non riesco più a comprendere come potessi accettare ed ammettere.

La santità dell'Opera mi era stata inculcata in modo tale che non potevo metterla in discussione nemmeno dentro di me, ma ogni giorno diventava per me più evidente che non c'era più posto per me là dentro. Mi avevano sempre detto, e così io avevo sempre predicato agli altri, che la vocazione non si perde mai: chiaramente non si esprimevano così, ma lasciavano intendere che aderiva all'anima con la stessa persistenza e connaturalità del carattere sacramentale, ma io cominciavo a pensare che forse ci poteva essere qualche eccezione, dato che, ora, mi risultava tanto evidente che se avessi continuato dentro, sarei finita di impazzire del tutto e sarei morta in uno stato miserevole. Pur nella mia grande confusione mentale, capivo che Dio non poteva volere una cosa del genere.

Iniziò così un tira e molla che durò due anni e mezzo circa. Loro da una parte mi dicevano che se me ne fossi andata avrei messo in grave forse la salvezza della mia anima (fra i libri di lettura spirituale abituali nell'Opera e che mi diedero da leggere in quelle circostanze c'erano "Le glorie di Maria" di sant'Alfonso De' Liguori, una chicca redatta nel più puro stile terroristico per quel che riguarda la perseveranza nella vocazione). Il Consigliere in persona mi disse che, se non avessi perseverato, non sarei mai potuta rimanere a Milano, dove tutti mi conoscevano e dove avrei "dato scandalo" con la mia infedeltà, come se stessimo parlando di un paesello di poche anime. Io dal canto mio, pur essendo ancora totalmente incapace di mettere in discussione alcunché dell'Opus Dei, che continuavo a giudicare una realtà santa dato che era stata approvata dalla Chiesa, cominciavo a capire che da qualche parte gli argomenti facevano acqua. La mia laurea in filosofia, e la familiarità con l'uso dei sillogismi che avevo acquisito grazie alla formazione interna di filosofia, propedeutica allo studio della teologia, mi portava a ragionare nel seguente modo: se gli statuti dell'Opera, che sono approvati dalla Chiesa, prevedono una forma per chiedere la liberazione dagli impegni solenni presi una volta per tutte, non può esserci niente di implicitamente perverso nel servirsi di questa procedura, dato che la Chiesa, assistita dallo Spirito Santo, non potrebbe mai approvare e permettere qualcosa di perverso. La mia crisi e la nascita di una più indipendente consapevolezza mi stavano portando fuori dall'Opera, anche se con ragionamenti e stereotipi mentali ancora tipicamente clericali, che non arrivavano a mettere in discussione il sistema nella sua globalità. Ancor di più: anche se era un argomento in genere accuratamente evitato, sapevo di alcune persone che se ne erano precedentemente andate rompendo con l'Opus Dei e con la chiesa alla grande, mettendo platealmente in piazza le loro ragioni e causando grande scandalo (solamente, credo ormai, per la gente dell'Opera per la quale ogni cessazione era vissuta come un grave fallimento e ogni critica come una calunnia). Quasi sempre si lasciava capire che alla base di queste fughe ci fosse un innamoramento, sottintendendo così che chi se ne andava non lo faceva sulla base di ragionamenti e di convinzioni, ma solo perché non riusciva a vincere una tentazione carnale. Anche in questo io continuai per parecchio tempo a mutuare i loro pregiudizi e a ragionare con la loro testa. Io me ne andavo non perché mi fossi innamorata di qualcuno: questo loro lo sapevano bene e non potevano neppure tentare di metterlo in dubbio. Affermavo anche con convinzione che avrei sempre parlato bene dell'Opus Dei, perché ero convinta (allora lo ero ancora sinceramente) che fosse santa e che mi avesse dato tutte le cose valide che possedevo, però me ne sarei andata perché, checché loro dicessero, ormai tutto il mio essere si rivoltava contro la vita fatta fino ad allora, per diciassette anni, e non riuscivo in nessun modo a riacchiappare il bandolo della matassa.

Dopo tre mesi di permanenza a Pamplona mi comunicarono che ero stata rimossa dal mio incarico di governo nell'Opera. Tornai in Italia e fui relegata in un centro dove vivevano persone giovani, rigide come solo le persone giovani sanno esserlo, e alle quali ero timorosa di dare cattivo esempio, convinta come ero che il mio malessere, la mia irritazione, la mia insofferenza, la mia apatia, ormai ingovernabili ma di cui ero pur sempre consapevole, dessero loro scandalo, e avvilita dal fatto di essere vista in quello stato dopo essere stata per queste stesse persone il riferimento che ero stata in passato. Chiesi più volte di essere trasferita in un centro abitato da persone più grandi, facendo presenti le gravi difficoltà che provavo, ma fui richiamata perentoriamente e con durezza all'obbedienza. Addirittura si arrivò ad un richiamo formale, fatto alle presenza di due direttrici, entrambe persone con le quali avevo convissuto e con le quali avevo avuto, e per quello che mi riguardava continuavo ad avere, un rapporto cordiale e confidenziale che mi rendeva ancor più dissonante e sproporzionato quell'intervento fatto con tanta autorità e distacco. Ma soprattutto quello che mi addolorò di questo episodio era la consapevolezza che io non stavo pretendendo niente, né accampando diritti, ma semplicemente continuavo a far presente, con la semplicità e la fiducia che mi avevano inculcato verso la madre buona, l'Opera e con l'urgenza e l'accoramento che nascevano dalla grande infelicità e disagio che mi appesantivano, l'aiuto che mi era lecito aspettare dalle sole persone che avevano la possibilità di darmelo, un aiuto chiesto per venire incontro ad uno stato riconosciuto di infermità provocata, per quanto mi fosse dato di sapere e per quello che riconoscevano le mie stesse direttrici, da un eccessivo esaurimento di forze dovuto alla mia donazione all'Opera.

Dopo quindici mesi di lotte chiesi ed ottenni la dispensa dalla cosiddetta "vita di famiglia", passo previo alla richiesta e all'ottenimento della dispensa dagli impegni contratti verso l'Opera. Negli ultimi tempi si erano decise ad assecondarmi ed ero tornata a vivere in un centro di persone grandi, ma ormai a quel punto qualcosa mi si era rotto dentro definitivamente e non era più possibile, per me, tornare indietro.

 

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